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Cattivi scienziati

Durante un'epidemia, chi non rispetta le disposizioni di salute pubblica danneggia tutti: uno studio

Enrico Bucci

Uno studio del Politecnico di Milano mostra che bastano pochi individui non cooperativi per accelerare la diffusione di un virus e creare focolai locali. Il comportamento, più del virus stesso, può decidere le sorti di un’epidemia urbana

Durante la pandemia di Covid-19, è diventato evidente che non sono solo i virus a determinare la traiettoria di un’epidemia, ma anche i comportamenti delle persone. C’è chi segue le raccomandazioni sanitarie — mascherine, distanziamento, vaccini — e chi le ignora o le rifiuta. Ma quanto può pesare, su scala di una grande città, una minoranza di individui non cooperativi? E soprattutto: è possibile quantificare l’effetto che questa parte della popolazione ha sulla diffusione di una malattia infettiva?

A queste domande risponde un lavoro interamente italiano, pubblicato nel 2025 su Proceedings of the Royal Society A da Fabio Mazza, Marco Brambilla, Carlo Piccardi e Francesco Pierri del Politecnico di Milano. Si tratta di una ricerca di pura modellistica: non analizza i dati reali della pandemia, ma costruisce città virtuali realistiche e vi fa scorrere epidemie simulate, per capire che cosa accade quando una parte della popolazione si comporta in modo irresponsabile.

Gli autori adottano un approccio “data-driven”, ma nel senso preciso di costruire un mondo simulato sulla base di dati reali, non di confrontare i risultati con osservazioni sanitarie. I dati provengono da WorldPop, che fornisce la distribuzione geografica della popolazione con risoluzione di 200–250 metri, e da ISTAT, che consente di suddividere gli abitanti per fasce d’età: bambini, giovani adulti, adulti e anziani. Ogni città — Milano, Torino e Palermo — viene suddivisa in una griglia di “piastrelle” quadrate, ognuna popolata con individui di età diverse secondo le statistiche demografiche reali. I legami tra persone sono poi di due tipi: quelli domestici, che uniscono membri della stessa famiglia, e quelli sociali, che connettono amici, colleghi o conoscenti. I legami domestici sono ricostruiti in modo coerente con statistiche demografiche su dimensioni famigliari, composizione per età e casi particolari (anziani soli) nelle città considerate dal modello. Per costruire la rete dei contatti sociali, invece, Mazza e colleghi impiegano un modello noto come Fitness-Corrected Block Model. È un algoritmo che genera connessioni più frequenti tra individui della stessa fascia d’età e più probabili tra persone che vivono vicine, ma che include anche una variabile casuale che rappresenta quanto ciascuno sia socialmente attivo, cioè quante relazioni intrattiene in media. Il risultato è una rete estremamente complessa, con centinaia di migliaia di nodi e circa undici contatti per individuo, che riproduce la densità e la struttura sociale tipiche di una città vera.

Su questa architettura realistica, gli autori fanno scorrere un’epidemia simulata basata su un modello matematico chiamato HeSIR (Heterogeneous Susceptible–Infected–Recovered), una versione arricchita del classico modello SIR. Nella popolazione convivono due tipi di individui: quelli che rispettano le misure sanitarie e quelli che le ignorano. I primi mantengono una probabilità “ordinaria” di contrarre e trasmettere l’infezione; i secondi, detti anche misbehaving, sono rappresentati come persone che, a parità di condizioni, si espongono di più al rischio e ne generano di più attorno a sé. Un comportamento poco prudente viene tradotto matematicamente in un coefficiente che moltiplica la probabilità di trasmissione. Gli autori assumono inoltre che ogni individuo resti nel proprio gruppo per tutta la durata della simulazione — nessuno cambia condotta in risposta al rischio — così da isolare l’effetto del comportamento iniziale sull’evoluzione dell’epidemia.

L’aspetto più originale — e anche più controverso — riguarda come viene stimata la distribuzione spaziale dei non-compliant. Poiché non esistono dati diretti su chi, e dove, abbia ignorato le misure sanitarie, gli autori ricorrono a un proxy: la propensione all’esitazione vaccinale, cioè la tendenza statistica a rifiutare o diffidare dei vaccini. Per costruire una mappa della “non-compliance” urbana combinano due fonti: i risultati delle elezioni politiche italiane del 2022 e uno studio europeo che ha misurato, su milioni di conversazioni Twitter, quanto l’orientamento politico si associ a posizioni esitanti o ostili ai vaccini. A ogni partito è associato un coefficiente di esitazione vaccinale (Vaccine Hesitancy Endorsement, VHE); questi coefficienti vengono pesati con i voti ricevuti in ciascuna sezione elettorale e proiettati sulle “piastrelle” della città, producendo un indice da 0 (massima fiducia nelle misure sanitarie) a 1 (massima diffidenza). È un’assunzione forte: si dà per scontato che l’atteggiamento verso i vaccini sia ricavabile dal voto politico e che rifletta, in media, anche la disposizione a rispettare altre misure come l’uso della mascherina o il distanziamento. Tuttavia, poiché l’obiettivo non è ricostruire retrospettivamente o realisticamente ciò che è accaduto, ma valutare l’effetto della non-compliance in un modello di contatti sociali in una città, quanto queste assunzioni siano giustificabili è tutto sommato irrilevante: qualunque altro modo di assegnare una quota di non compliance alle singole comunità cittadine che vivono nella piastrellatura geografica utilizzata sarebbe andato bene.

Nelle simulazioni iniziali i non-compliant vengono distribuiti in modo uniforme, cioè sparsi a caso nella popolazione. In seguito vengono assegnati seguendo la distribuzione derivata dai dati politici e dalla loro proiezione in ambito vaccinale. In tutti i casi, l’epidemia inizia da un piccolo gruppo di individui infetti (50 per Milano e Torino, 30 per Palermo) e si propaga passo dopo passo, con una probabilità di contagio che dipende dal tipo di contatto (familiare o sociale) e dai parametri del modello.

I risultati sono eloquenti. Anche una minoranza ridotta di individui non compliant può cambiare radicalmente la dinamica di un’epidemia urbana. Quando solo il 10% della popolazione si comporta in modo rischioso, l’infezione diventa più rapida, il picco dei casi arriva prima e il numero totale di contagi aumenta sensibilmente. Con valori realistici dei parametri, il totale dei contagiati cresce fino al 40% in più rispetto a una popolazione completamente conforme alle indicazioni dei medici. Alcune aree della città, soprattutto periferiche, mostrano un aumento dei casi fino al 20% superiore alla media, formando veri e propri hotspot di contagio. La correlazione tra quota locale di non-compliant e numero di infetti è chiara: più alta è la prima, più alto è il secondo.

L’effetto è più forte quando la malattia ha una trasmissibilità moderata: se è troppo contagiosa, il ruolo dei comportamenti individuali si riduce perché l’infezione si diffonde comunque; se è troppo poco contagiosa, l’epidemia si spegne. In mezzo, però, una piccola frazione di individui irresponsabili può fare la differenza tra un’epidemia controllabile e un’ondata fuori controllo.

Gli autori dimostrano inoltre che l’effetto dipende in modo particolare dalla suscettibilità più che dall’infettività: contano più gli individui che si espongono al rischio (chi frequenta ambienti affollati senza precauzioni) che quelli che semplicemente contagiano di più.

Per capire se gli effetti osservati derivano davvero dalla struttura della rete urbana o solo dalla distribuzione dei parametri, i ricercatori hanno fatto un esperimento cruciale: hanno “rimescolato” la rete dei contatti mantenendo lo stesso numero medio di connessioni per persona, ma eliminando la geografia, le famiglie e le età — in pratica, una rete casuale. Il risultato è sorprendente: le differenze tra quartieri ad alta e bassa compliance quasi scompaiono. In una rete sociale senza struttura realistica, i focolai non si formano e l’epidemia diventa più omogenea. Questo conferma che la topologia dei contatti umani — chi vede chi, dove e con quale frequenza — è ciò che trasforma i comportamenti in differenze spaziali di rischio.

Ovviamente, come riconoscono gli autori, le loro ipotesi sono semplificazioni: i comportamenti degli individui non cambiano nel tempo, non ci sono periodi di incubazione né mobilità giornaliera, e l’indicatore di non-compliance si basa su una correlazione indiretta tra orientamento politico ed esitazione vaccinale. Sono assunzioni volutamente semplificative, ma dichiarate apertamente e giustificate da un intento preciso: costruire un esperimento controllato per capire come la sola presenza di differenze comportamentali, inserita in una rete urbana realistica, alteri la dinamica epidemica.

Da questo punto di vista, il risultato è chiaro. In un sistema urbano realistico, la concentrazione geografica di comportamenti non conformi è un moltiplicatore di rischio. Anche una piccola minoranza di persone che non si protegge o non collabora può anticipare e amplificare il picco dei contagi, creando focolai localizzati che mettono sotto pressione i servizi sanitari. È un effetto che non dipende dal virus in sé, ma dalla combinazione tra il mondo in cui viviamo e il modo in cui ci comportiamo.

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