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Cattivi scienziati

Dalla visione statica a quella dinamica: l'evoluzione dello studio della genetica

Enrico Bucci

La medicina di precisione dovrà svilupparsi verso un modello più tridimensionale: dal rischio alla risposta e dalla risposta all’evoluzione. Capire non solo chi si ammalerà e quale farmaco somministrare, ma anche come la malattia si svilupperà nel tempo in quella persona, al di là della mutazione iniziale

Può capitare che un test genetico ci restituisca un risultato scomodo: una predisposizione elevata a una malattia importante. In quel momento è naturale pensare che il gioco sia fatto, che quella informazione contenga non solo il rischio di ammalarsi, ma anche la previsione di come andrà a finire. È un errore di prospettiva, e uno studio appena pubblicato su Nature Genetics lo mostra con grande chiarezza. Un gruppo di ricercatori ha analizzato nove malattie comuni - dal diabete ai tumori, dalle malattie cardiache a quelle neurodegenerative - utilizzando i dati di centinaia di migliaia di persone seguite per anni. L’obiettivo era semplice da enunciare, ma quasi mai affrontato direttamente: capire se le varianti genetiche che aumentano la probabilità di ammalarsi siano le stesse che determinano la gravità o la mortalità della malattia una volta che essa si manifesta. In pratica, si trattava di separare la genetica del rischio da quella dell’esito.

 

Per farlo, gli autori hanno esaminato in parallelo due tipi di dati. Il primo è quello classico, che associa specifiche differenze nel DNA — piccole variazioni chiamate polimorfismi — alla probabilità di sviluppare una malattia. Il secondo è più raro e complesso: valutare, tra chi è già malato, quali varianti influenzano la probabilità di morire per quella stessa condizione. Il risultato è sorprendente: le due mappe genetiche quasi non si sovrappongono. Su oltre ottocento varianti note per aumentare il rischio di ammalarsi, praticamente nessuna mostra un effetto misurabile sull’esito della malattia. In altre parole, il genoma che predispone non è quello che decide come andrà a finire. I ricercatori hanno costruito poi dei punteggi poligenici, cioè indicatori che combinano l’effetto di migliaia di varianti per stimare il rischio complessivo. Questi punteggi si sono dimostrati efficaci nel prevedere chi si ammalerà, ma del tutto inefficaci nel prevedere chi, tra i malati, avrà un decorso più grave o morirà. Perfino un punteggio genetico generale di longevità - che riflette la tendenza di un organismo a mantenere nel tempo le sue funzioni fisiologiche - ha mostrato una capacità predittiva superiore per la sopravvivenza rispetto ai punteggi specifici delle singole malattie.

 

Ma il lavoro non si ferma qui. In alcuni casi, gli autori hanno scoperto che esistono varianti genetiche che non influenzano il rischio di ammalarsi, ma diventano rilevanti solo dopo che la malattia è comparsa. Nel diabete di tipo 2, per esempio, hanno identificato una regione del genoma associata alla comparsa di complicanze cardiovascolari e alla mortalità, ma che non ha alcun effetto sulla probabilità di sviluppare il diabete in sé. Questo significa che esiste una genetica della progressione distinta dalla genetica della suscettibilità: diverse reti di geni entrano in gioco in momenti diversi del processo patologico. La lezione che emerge è doppia. Da un lato, il rischio genetico non è un destino: il fatto di avere una predisposizione non implica che si avrà un decorso peggiore. Dall’altro, non tutto ciò che conta dopo l’insorgenza della malattia è ambientale o clinico; anche qui il genoma può dire qualcosa, ma attraverso altri circuiti, altri geni, altri meccanismi biologici. Ciò che determina la probabilità di ammalarsi non è necessariamente ciò che governa la risposta del corpo, l’efficacia delle terapie o la capacità di resistere al danno.

 

Questo studio segna quindi un punto di svolta per la medicina di precisione. Finora l’attenzione si è concentrata soprattutto su due fronti: prevedere chi si ammalerà, e individuare quale trattamento sia più efficace in presenza di una determinata alterazione genetica, come avviene in molti tipi di tumore in cui una specifica mutazione indirizza verso una terapia mirata. Ma il risultato di questa ricerca mostra che manca un terzo asse, finora quasi del tutto trascurato: capire come il genoma influenzi l’andamento della malattia dopo che essa si è manifestata. Sapere perché due persone con lo stesso tipo di tumore, con la stessa mutazione bersaglio e trattate nello stesso modo, possano avere esiti molto diversi. Questa è la parte più difficile e più interessante: la genetica del decorso, che non coincide né con la genetica del rischio né con quella della risposta terapeutica. L’analisi su milioni di dati genomici e clinici suggerisce che ciò che determina la suscettibilità e ciò che regola la progressione appartengono a reti diverse di geni, spesso senza alcuna sovrapposizione. Alcune varianti entrano in gioco solo dopo l’esordio, modificando la velocità con cui la malattia si aggrava o la capacità dell’organismo di compensare il danno. Altre agiscono in modo sistemico, influenzando la resilienza complessiva dei tessuti, l’efficienza del metabolismo o la risposta immunitaria. È una genetica più sottile, meno spettacolare ma più aderente alla realtà biologica.

 

La medicina di precisione dovrà quindi evolvere verso un modello più tridimensionale: dal rischio alla risposta, e dalla risposta all’evoluzione. Capire non solo chi si ammalerà e quale farmaco somministrare, ma anche come la malattia si svilupperà nel tempo in quella persona concreta, al di là della mutazione iniziale. Significa passare da una visione statica della genetica - quella del gene “responsabile” e del gene “bersaglio” - a una visione dinamica, in cui i geni si comportano come nodi di una rete che si riattiva e si riconfigura durante il corso della malattia.

 


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