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Cattivi scienziati
Non esiste un'universalità nel vedere e nel comprendere le cose. Così la cultura influenza la mente
Uno studio, discusso su Science, cerca di dare una risposta alla domanda che accompagna la psicologia della percezione da più di un secolo: ciò che vediamo è come lo vedrebbero tutti gli altri? Nessuno "vede ciò che vuole”, ciò che si vede dipende principalmente da come si è imparato a vedere
Come facciamo a sapere che ciò che vediamo è reale — o almeno, che lo vediamo come lo vedrebbero tutti gli altri? È una domanda che accompagna la psicologia della percezione da più di un secolo, ma che spesso resta sullo sfondo, elusa da modelli che considerano la visione come un processo automatico, governato da regole biologiche universali. Eppure, uno studio recente mette in discussione proprio questa presunta universalità. Se anche la percezione visiva, che riteniamo tra le più immediate e oggettive, risente dell’ambiente in cui si cresce, allora l’intera costruzione del mondo — che dipende da tutti i sensi, e dalla loro integrazione — potrebbe essere molto meno uniforme di quanto si crede.
Lo studio, pubblicato per ora solo come preprint su PsyArXiv, ma discusso su Science, ha coinvolto tre gruppi: persone nate e cresciute in paesi industrializzati (Stati Uniti e Regno Unito), abitanti di una cittadina semiurbana in Namibia, e membri di villaggi rurali Himba. Ai partecipanti sono state mostrate sei illusioni ottiche, cinque delle quali mai testate prima in studi interculturali. Le immagini erano state scelte per attivare meccanismi percettivi precoci, non legati a interpretazioni o aspettative, ma al modo stesso in cui il cervello organizza gli stimoli visivi.
Tra tutte, quella che ha prodotto i risultati più netti è la cosiddetta Coffer illusion, composta da una griglia regolare che può essere vista in due modi: o come una serie di rettangoli, o come una sequenza di cerchi che emergono dall’intersezione delle linee. Il 97 per cento dei partecipanti occidentali ha visto subito i rettangoli, mentre il 96 per cento degli Himba ha visto prima i cerchi, e circa la metà non ha identificato affatto i rettangoli, neanche dopo essere stati invitati a cercarli. Gli abitanti del centro urbano intermedio hanno mostrato una distribuzione più varia, come ci si aspetta da chi vive a contatto con architetture miste, rettilinee e circolari.
Il dato è stato interpretato alla luce della carpentered world hypothesis, secondo cui chi cresce in ambienti costruiti secondo moduli geometrici squadrati — con muri, finestre, porte, tavoli — sviluppa una maggiore sensibilità percettiva per gli angoli retti e le linee parallele. Nei villaggi Himba, invece, le abitazioni tradizionali sono capanne circolari disposte attorno a un recinto anch’esso circolare. In questo contesto, la familiarità visiva con le forme curve sembra modificare stabilmente la modalità con cui vengono organizzate le informazioni visive.
Questo risultato non si limita a suggerire che l’attenzione o le abitudini culturali influenzano l’interpretazione di un’immagine. Mostra che ciò che viene visto per primo, in un’illusione pensata per attivare meccanismi percettivi di base, dipende dall’ambiente in cui si è vissuti. Il modo in cui la mente raggruppa i segmenti di una figura non è fissato biologicamente, ma è modellato da un’esposizione ripetuta a certe strutture, che il sistema visivo apprende a riconoscere e privilegiare. In altre parole, ciò che salta agli occhi non è affatto indipendente dal contesto culturale.
Il lavoro, oltre a fornire nuove evidenze sperimentali, contribuisce a un dibattito più ampio: quello sulla validità dei risultati psicologici ottenuti quasi esclusivamente su soggetti Weird (Western, Educated, Industrialized, Rich, Democratic). Come ha osservato Joseph Henrich, che non ha partecipato allo studio ma ha formato alcuni degli autori, l’idea di un “uomo medio” basato sul campione occidentale è metodologicamente debole. Se la percezione visiva — uno dei pilastri con cui costruiamo il mondo esterno — varia in modo così sistematico da un contesto all’altro, allora lo stesso potrebbe valere per molte altre funzioni mentali, e l’universalità di certi modelli va verificata, non assunta.
Il punto, quindi, non è che “ognuno vede ciò che vuole”, ma che ciò che si vede dipende anche da come si è imparato a vedere. E poiché la visione è alla base dell’orientamento spaziale, del riconoscimento degli oggetti, del movimento e della memoria visiva, la struttura stessa dell’esperienza quotidiana potrebbe cambiare in modo significativo tra gruppi umani esposti a mondi materiali diversi. Questo studio suggerisce che il cervello non riceve semplicemente immagini dal mondo, ma le costruisce attivamente, secondo schemi che rispecchiano l’ambiente in cui è stato immerso.
A maggior ragione, se ciò accade con la vista — il senso a cui spesso attribuiamo maggiore affidabilità — è plausibile che anche gli altri sensi, e l’immagine unificata del mondo che ne risulta, siano ugualmente permeabili all’ambiente culturale. La mente non registra il mondo: lo apprende. E ciò che considera “ovvio”, anche a livello percettivo, potrebbe essere il frutto di un apprendimento condiviso solo da una parte dell’umanità.
Chi cresce circondato da muri vede rettangoli anche dove non ce ne sono. Chi cresce tra strutture curve vede cerchi che altri non riescono nemmeno a immaginare. Se questo vale per ciò che vediamo — per la materia prima con cui costruiamo la nostra esperienza del mondo — allora vale anche per il modo in cui pensiamo, ricordiamo, giudichiamo. Non basta dire che la cultura influenza la mente: bisogna riconoscere che essa forma ciò che riteniamo naturale. E a quel punto la domanda iniziale si rovescia: non più “perché gli altri vedono cose diverse?”, ma “quante cose ci sfuggono, semplicemente perché non abbiamo mai vissuto in un mondo che ci insegni a vederle?”

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