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Cattivi scienziati

Vinca il migliore? No: vinca il metodo

Enrico Bucci

Due fra le più influenti teorie neuroscientifiche della coscienza vengono messe alla prova, ma entrambe ne escono ridimensionate. Uno studio mostra come i dubbi della scienza possano essere risolti dalla natura attraverso l’esperimento controllato

Un esperimento senza precedenti pubblicato su Nature, due fra le più influenti teorie neuroscientifiche della coscienza – la Global Neuronal Workspace Theory (Gnwt) di Stanislas Dehaene e la Teoria dell’Informazione Integrata (IIT) di Giulio Tononi – sono state messe a confronto diretto, sotto il vincolo di una procedura condivisa, predizioni preregistrate e analisi indipendenti. Non un confronto vago tra idee, ma una prova sperimentale a pieno titolo, organizzata da un consorzio internazionale in forma deliberatamente antagonistica: i fautori delle due ipotesi teoriche si sono seduti allo stesso tavolo, hanno concordato condizioni e domande, e si sono impegnati ad accettare l’esito empirico.

 

           

Tutto ciò è stato possibile perché siamo entrati in una nuova fase nello studio scientifico della coscienza. Per anni, il lavoro delle neuroscienze si è concentrato sull’identificazione del suo supporto biologico: quali aree corticali sono attive durante l’esperienza cosciente, quali connessioni risultano coinvolte, quali tracciati elettrofisiologici la distinguono dallo stato incosciente. Un lavoro fondamentale, ma prevalentemente descrittivo. Solo recentemente si è compiuto un salto: si è cominciato a formulare teorie strutturate non solo su dove si manifesti la coscienza, ma su che cosa essa sia in termini funzionali, e come operi all’interno della dinamica cerebrale. Teorie capaci di proporre architetture computazionali, meccanismi causali, e – soprattutto – predizioni divergenti sull’attività del substrato neurobiologico che le supporta. È proprio questa maturazione teorica che ha reso possibile per la prima volta un esperimento come questo: se le teorie sono sufficientemente articolate da generare previsioni incompatibili, allora possono essere messe alla prova sperimentale. E si può cominciare a distinguere, tra ciò che è coerente con i dati e ciò che non lo è.

L’esperimento è riuscito. Non perché abbia decretato un vincitore, ma perché ha mostrato ciò che ogni buon test dovrebbe rivelare: i limiti delle teorie messe alla prova. Nessuna delle due è risultata completamente coerente con i dati. Alcune predizioni specifiche, formulate in modo esplicito e vincolante prima dell’analisi, sono state smentite dai risultati. Questo è esattamente ciò che si chiede a un esperimento ben congegnato: non confermare vagamente ciò che si sospettava, ma forzare una teoria a esporsi, e poi misurarla contro l’evidenza. In questo senso, la collaborazione antagonistica ha funzionato perfettamente.

I partecipanti – 256 soggetti esaminati con fMRI, Meg e, in alcuni casi, anche con elettroencefalografia intracranica – hanno visualizzato stimoli visivi chiaramente percepibili (suprathreshold) di durata variabile, mentre le loro risposte neurali venivano registrate. Il compito era costruito per discriminare tra rappresentazioni consce e inconsce dello stimolo, permettendo di valutare dove e come si codifica l’informazione visiva nel cervello durante l’esperienza soggettiva.

Secondo la Gnwt, l’accesso cosciente si manifesta come una “accensione” (ignition) improvvisa e diffusa che rende il contenuto disponibile a tutto il cervello, coinvolgendo in modo centrale la corteccia prefrontale. In particolare, si attendeva una sincronizzazione marcata tra aree frontali e sensoriali al momento in cui lo stimolo entra nella coscienza, e una rappresentazione chiara dei contenuti consapevoli nella corteccia prefrontale.

La IIT, invece, prevede che la coscienza emerga quando l’informazione è sia altamente differenziata sia integrata all’interno di una rete neurale posteriore: in questo schema, è la connettività interna del cosiddetto “hot zone” posteriore (occipitale, parietale, temporale inferiore) a determinare la qualità dell’esperienza cosciente, non l’estensione globale o la diffusione.

E qui iniziano i problemi, per entrambe. I risultati ottenuti mostrano che l’informazione sui contenuti coscienti è effettivamente rappresentata nelle aree visive, ventro-temporali e, in parte, frontali inferiori, ma la corteccia prefrontale – predetta come centrale dalla Gnwt – non mostra una rappresentazione robusta di alcune dimensioni chiave dell’esperienza conscia. Inoltre, l’accensione prevista al termine dello stimolo, uno degli elementi distintivi della Gnwt, è risultata in gran parte assente. Anche la sincronizzazione specifica tra aree frontali e sensoriali, pur osservata, non ha assunto la forma forte e generalizzata prevista dal modello.

D’altro canto, la IIT viene contraddetta dal fatto che nelle aree posteriori non si è osservata una sincronizzazione sostenuta tra regioni, né una connettività specifica tale da “specificare” l’emergere della coscienza in modo univoco. L’assenza di questo pattern indebolisce l’idea che la coscienza dipenda dalla sola architettura di integrazione informativa nella parte posteriore della corteccia.

Entrambe le teorie escono quindi ridimensionate, ma il punto non è che siano “sbagliate” nel senso grossolano del termine. È che si sono finalmente esposte, hanno formulato previsioni chiare, e alcune di esse sono state falsificate. È questo che rende lo studio esemplare: il suo successo non sta nell’aver assegnato un punteggio, ma nell’aver prodotto un banco di prova solido e replicabile, in cui la falsificabilità – troppo spesso evocata solo a parole – è diventata criterio operativo.

Il consorzio Cogitate ha mostrato che anche per un problema complesso e in parte ancora filosofico come la coscienza è possibile costruire un protocollo rigoroso, fondato su preregistrazioni, disegno condiviso e interpretazioni concordate. È un esempio di come si possa fare neuroscienza teorica in modo maturo: non con congetture ad hoc o ipotesi vaghe, ma con architetture logiche e sperimentali che mettono a rischio reale le proprie previsioni.

In un tempo in cui la scienza è spesso rappresentata come autorità e raramente compresa come metodo, questo studio rappresenta un modello da additare: mostra che il disaccordo teorico non solo è compatibile con la cooperazione, ma può essere la condizione per un rigoroso tentativo di falsificazione. E che i dubbi della scienza li risolve la natura attraverso l’esperimento controllato, non chi asserisce che la scienza è fallace e che una teoria scientifica sia la stessa cosa di una qualunque altra.

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