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Il caso

L'impresa di Andrew Wiles

Roberto Volpi

La dimostrazione del teorema di Fermat è uno spunto per capire il nostro posto nel cosmo. La storia del matematico e degli enunciati che ha dimostrato

Siete pregati di figurarvi la scena. Siamo nella sala centrale del prestigioso Isaac Newton Institute di Cambridge, affollata da duecento tra i matematici più grandi e famosi del mondo. E’ il 23 giugno 1993, trent’anni fa esatti. Andrew Wiles, un matematico quarantenne professore a Princeton, il sancta sanctorum dei matematici, nato però proprio a Cambridge, ha tre lavagne di fronte a sé, che sta riempiendo di simboli e formule che probabilmente solo una piccola minoranza di quei pur eccelsi matematici afferra lì per lì. Quando le ha riempite tutte e tre deve cancellare la prima alla sua sinistra e da quella ricominciare. E’ lì già da tre quarti d’ora, senza aver pronunciato una sola parola, ma il pubblico è silenzioso, paziente. Di più: elettrizzato, affascinato, rapito. E’ stato avvertito via e-mail: sa di trovarsi di fronte al più formidabile tentativo di assalto all’ultimo teorema di Fermat mai tentato in oltre tre secoli di storia di quel teorema ancora indimostrato e, a detta di molti, indimostrabile. Andrew Wiles afferma di essere infine riuscito nell’impresa nella quale hanno fallito tutti prima di lui, da secoli. 

 

Ma cos’è l’ultimo teorema di Fermat e perché è così importante nel mondo della matematica? Chi è Fermat che l’ha enunciato ma non dimostrato? E chi è Andrew Wiles che accumula simboli algebrici e lettere greche in una mescolanza tale da disorientare anche le più brillanti menti matematiche presenti alla sua conferenza/dimostrazione?

 

Cominciamo da Fermat, il matematico francese del XVII secolo che mette in moto quella ch’è senz’altro la più formidabile impresa scientifica mai tentata nel mondo della matematica. Pierre de Fermat, nato nel 1607 e morto nel 1665, è in realtà un magistrato prestato alla matematica. Oggi i magistrati, almeno quelli italiani, sono tutti prestati alla letteratura, alla narrativa di genere, tra giallo e poliziesco. Pierre de Fermat è un matematico che ha fatto studi giuridici, nient’affatto matematici. Ma per quanto abbia messo nel suo incarico di magistrato la dedizione ch’esso comportava, la passione l’ha riversata tutta sulla matematica. Per questo, del resto, passerà alla storia come il Principe dei dilettanti – matematici, ovviamente. E’ lui il vero iniziatore di quel filone più che fondamentale della matematica ch’è la teoria dei numeri. Con Pascal è anche il fondatore della teoria della probabilità. Insomma, un grande, un grandissimo. Dunque, Pierre de Fermat sta un giorno leggendo un libro dell’Arithmetica di Diofanto (III-IV secolo avanti Cristo), maestoso trattato in tredici volumi dei quali solo sei sono arrivati fino a noi, forse l’ultimo della schiera dei grandi matematici greci. Sta riflettendo, seguendo il ragionamento del matematico greco, sulle terne pitagoriche. Chiamando x e y i cateti e z l’ipotenusa di un triangolo rettangolo, ovvero con un angolo retto, la terna pitagorica dice che la somma dei quadrati dei cateti è uguale al quadrato dell’ipotenusa, ovvero: x2 + y2 = z2. Questa è l’equazione pitagorica che tutti impariamo già dalle medie e, al di là dei triangoli rettangoli, ammette un’infinità di soluzioni. La prima che si incontra è questa: 32 + 42 = 52. Infatti: 9 + 16 = 25.

 

Le cose sono conosciutissime, quando Fermat riflette sulle terne pitagoriche di questo tipo. C’è poco ancora da inventarsi. Ed ecco allora il lampo di genio. Che succede con quelle altre terne nelle quali l’esponente non è 2 ma, per ipotesi, 3? Che succede se la terna è x3 + y3 = z3? Ammette anch’essa un’infinità di soluzioni? No, nient’affatto. Non ne ammette neppure una. E neppure una ne ammettono tutte le altre terne di questo tipo dove l’esponente è un numero qualsiasi diverso da 2. Insomma, afferma Pierre de Fermat, solo x2 + y2 = z2 ammette (ha) soluzioni, tutte le altre terne no, non ammettono (non hanno) alcuna soluzione. Affermazione formidabile e formidabilmente azzardata. Come si fa ad escludere tutti gli altri esponenti possibili immaginabili? Ed ecco allora il più celebre teorema della matematica: la terna x2 + y2 = z2 è la sola ad avere soluzioni. In realtà per più di tre secoli non sarà, dal momento che nessuno riesce a darne una dimostrazione in termini matematici, niente di più di una congettura.

 

Fermat scrive a margine del libro di Diofanto che sta leggendo queste precise, fatali parole, in quanto capaci di innestare la girandola dei tentativi di dimostrazione che non si sarebbe più fermata fino a Wiles: “Dispongo di una meravigliosa dimostrazione di questo teorema che non può essere contenuta nel margine troppo stretto della pagina”. 
Così era Fermat: diceva di avere soluzioni di certi quesiti matematici che poi non mostrava – non sempre, almeno. Fermat non ritornò sull’argomento. Non disse, una volta che aveva tutto lo spazio possibile a disposizione: ecco qui la dimostrazione del teorema da me prima formulato ma non sviluppato per mancanza di spazio su cui scrivere. Ciò che apre la strada a tre possibili interpretazioni: Fermat (a) non aveva alcuna dimostrazione (b) l’aveva ma era sbagliata (c) l’aveva ed era pure quella giusta, proprio la “meravigliosa dimostrazione” che diceva di avere. Tutto fa pensare che la seconda possibilità sia quella più probabile. Fermat era spesso irritante, nel suo atteggiamento che affermava senza dimostrare e che sapeva a volte di snobismo matematico, sul tipo di quello ben più generale del marchese del Grillo, per intenderci “io sono io e voi non siete un cazzo”. Ma non era uno sbruffone, dunque una dimostrazione doveva pensare di averla. Se però non è più tornato sull’argomento è quasi certamente perché si accorse che la “meravigliosa dimostrazione” tale non era: né meravigliosa né dimostrazione.

 

Andrew Wiles (Cambridge 1953) era un ragazzino sveglio, portato per la matematica. Ad appena dieci anni incrociò l’ultimo teorema di Fermat. Dovette sembrargli impossibile che non fosse stato ancora dimostrato dopo oltre tre secoli, data la sua formulazione così semplice, e promise a se stesso che, quando fosse stato il tempo, l’avrebbe risolto. Il tempo arrivò dopo i trent’anni, una volta in America, una volta professore a Princeton nella facoltà di Einstein, di Kurt Godel, Hermann Weyl, John von Neumann, il gotha della matematica e della logica matematica. Si racconta che prima del fatidico 23 giugno 1993 all’Isaac Newton Institute di Cambridge avesse trascorso sette lunghi anni senza mettere per così dire la testa fuori dal suo studio, pur di riuscire a strappare il segreto dell’ultimo teorema di Fermat. Lavorò sottotraccia, nel più assoluto silenzio, diversamente da quello ch’è il costume dei matematici, tra i quali, per dirne una, sono consuetudinari gli incontri intorno al tè delle cinque o giù di lì durante i quali ci si aggiorna reciprocamente sulle ricerche nelle quali ci si sta cimentando, i risultati ottenuti e le difficoltà che si incontrano. La cosa certa è che per arrivare alla dimostrazione del teorema di Fermat Wiles aveva dovuto non soltanto imparare a fondo tutta quanta la matematica più moderna e della più alta complessità, ma aveva dovuto inventarne a sua volta di sana pianta e, operazione ancora più ardua, raccordare tra di loro conoscenze in campi della matematica lontani tra di loro (almeno all’apparenza) anni luce. Insomma, una fatica immane, un’impresa titanica percorsa da una vena di genialità che solo del tutto eccezionalmente dura così a lungo nel tempo. Tutte cose, queste, che peraltro gettano una luce nuova sulla “meravigliosa dimostrazione”, mai scritta, di Fermat. Fermat, semplicemente, non poteva avere allora gli strumenti, le basi fondamentali per dimostrare il suo teorema. 

 

Ora, una dimostrazione del calibro di quella di Andrew Wiles occupa – e già se ne ebbe anticipazione nelle tante lavagne stipate dei “geroglifici” della matematica più avanzata ch’egli vergò indefessamente in quel 23 giugno 1993 –  decine e decine di pagine, un centinaio nella fattispecie, di formule complicatissime di un simbolismo talmente raffinato da sembrare esoterico, di passaggi ardui, di connessioni difficilissime da cogliersi nella sostanza che si cela dietro un susseguirsi di formule che a dispetto della materia, la matematica, rifuggono dai numeri come il diavolo dall’acquasanta. Insomma, non è certamente cosa della quale si possa giudicare all’impronta la correttezza dalla a alla z, dalla prima all’ultima riga, formula, equazione, passaggio. Si applaudì alle due ore di presentazione di Wiles, è indubbio, giacché si capì subito, tutti i matematici presenti almeno questo capirono, che il tentativo non aveva termini di paragone, tanto era alto, ambizioso, completo, geniale. Ma ci si riservò il giudizio finale.  E chissà se Andrew Wiles, mentre una commissione di matematici era al lavoro sulla sua dimostrazione, che in capo a un mese circa emise un verdetto negativo, aveva intuito che la sua dimostrazione aveva una falla, era sbagliata. O, se, diversamente, il verdetto lo colpì con la forza di un uppercut al volto così inatteso e ben sferrato da spedirlo al tappeto. Chissà. Una cosa è certa, però: non si era mai, dicasi mai, dato il caso di una dimostrazione matematica fallita e però in un secondo tempo recuperata, aggiustata, rimessa sui binari e infine vittoriosamente risolta. Il perché è chiaro: il fallimento di una dimostrazione matematica implica il fallimento sin dalle premesse o, se non altro, una debolezza esiziale nelle fondamenta dell’edificio dimostrativo. Cosicché non c’è niente da poter aggiustare e la strada è semmai una sola: girare pagina e, se si trova la forza, ricominciare da zero da altre premesse, con altre fondamenta. Impresa proibitiva. Immaginatevi dopo sette anni di lavoro indefesso tirare una croce su tutto il lavoro fatto e pensare di ricominciare daccapo, con la prospettiva, doppiamente incerta rispetto alla prima, di altri sette anni di durissimo, non riconosciuto e peggio che incerto negli esiti, lavoro.

 

Andrew Wiles non andò al tappeto. Il buco nella dimostrazione c’era, ma non era tale da squilibrare tutto l’edificio fino a farlo crollare al suolo in un tripudio di polvere e calcinacci. Era un buco delimitato, al quale si poteva pensare di porre rimedio. E non in altri sette anni. Tant’è che a Wiles bastò (si fa per dire) un altro anno di clausura da fare invidia a quegli ordini monastici che hanno per sola regola l’assoluto silenzio per rimediare all’errore e infine mettere a punto una dimostrazione a prova delle più attrezzate ed esigenti commissioni di matematici. Sull’indefessa ricerca della dimostrazione dell’ultimo teorema di Fermat poteva finalmente scriversi dopo quasi tre secoli e mezzo d’infruttuosi, frustranti tentativi la parola fine.

 

Nell’agosto del 1972 il ventinovenne Robert James Fischer detto Bobby (1943-2008) batté a Reykjavik il campione del mondo di scacchi in carica, il russo Boris Spassky, al termine di uno scontro lunghissimo, pieno di colpi di scena e punteggiato dalle autentiche mattane dello statunitense, che soffrì per tutta la vita di disturbi della personalità anche molto gravi. Perché ricordo questo episodio? Non soltanto, anzi solo marginalmente, per le evidenti connessioni tra i due mondi, quello della matematica e quello degli scacchi. Ma perché la vittoria di Bobby Fischer, l’inattesa vittoria di Bobby Fischer, anche per il modo sommamente massmediatico con cui fu ottenuta, regalò agli scacchi una lunga stagione di grande notorietà, di fioritura di talenti scacchistici, di schiere di ragazzini che volevano imparare a giocare a scacchi. Così è stato, anche se su una scala un tantino più ridotta, per Andrew Wiles, l’ultimo teorema di Fermat, la matematica. L’impresa finì infatti sulle prime pagine di tutti i giornali del mondo, ne parlarono a piene mani telegiornali e giornali radio, documentari furono girati e libri scritti per celebrarla. Ben difficilmente, se non proprio mai, una scoperta matematica assurge a una notorietà del genere.

Ma chiediamoci, in ultimo, se non ci sia per caso anche una qualche ragione più profonda, magari perfino inconscia, alla base tanto della notorietà del teorema che del clamore suscitato dalla sua dimostrazione. 

L’ultimo teorema di Fermat richiama indiscutibilmente il teorema di Pitagora che impariamo ben presto a recitare in questo modo: “il quadrato costruito sull’ipotenusa è uguale alla somma dei quadrati costruiti sui cateti”. In simboli proprio: x2 + y2 = z2, dove x e y sono i cateti e z l’ipotenusa. Fermat assicurava, e Wiles l’ha dimostrato, che una tale equazione vale soltanto, per i numeri interi, con 2, e con nessun altro esponente compreso tra 3 e l’infinito. Non c’è nessun’altra soluzione oltre il confine dell’esponente 2, del quadrato. Ma questa, riflettiamoci bene, è una conclusione sensazionale. Com’è possibile che un’espressione così semplice (è lo stesso interrogativo di Andrew Wiles quando, ancora bambino, s’imbatté nell’ultimo teorema di Fermat) non ammetta nessun’altra soluzione, se non quella dell’esponente 2, del quadrato? Già, com’è possibile? E’ possibile. E’ così. Ma allora – e qui mi allargo, chiedo venia – tutti i discorsi sugli universi paralleli, i multiversi? Ma come, ma quali se perfino una “cosina” come x2 + y2 = z2 nasce, si sviluppa e muore con 2? Ecco: la dimostrazione dell’ultimo teorema di Fermat ci riporta tutti in qualche modo sulla terra. Calma e gesso, sembra suggerirci. Tutti questi voli iper uranici multiversici hanno da combattere contro una resistenza terrena, terragna si dica pure, che sempre, in ogni momento sembra volerci dire che queste della terra, della variabilità delle specie viventi e dell’intelligenza umana sulla terra, non sono propriamente quisquiglie nell’universo mondo. Hai visto mai che solo la Terra ammette certe soluzioni? Quelle soluzioni.

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