CATTIVI SCIENZIATI
Non ci sono prove che l'omeopatia sia utile come rimedio “integrativo”
Le pubblicazioni scientifiche sono solo l'inizio della valutazione di un risultato, non la sua consacrazione. Bisogna tenerne conto prima di diffondere false credenze. I casi dell'omeopata Mecozzi e della Regione Toscana
Abbiamo in questi giorni appreso della condanna comminata in primo grado all’omeopata Massimiliano Mecozzi, che ha causato la morte del piccolo Francesco Bonifazi perché ha convinto i genitori a somministrare rimedi omeopatici invece che l’antibiotico che avrebbe potuto guarirlo da una comune otite.
Ne abbiamo discusso in molti, tra cui Gilberto Corbellini ed io stesso; vorrei qui aggiungere qualche ulteriore elemento di riflessione, abbandonando il singolo caso specifico e facendo qualche considerazione generale sul modo in cui pretesi “scienziati” supportano con false pubblicazioni scientifiche l’idea che, comunque, l’omeopatia sia efficace.
Consideriamo quindi la “nuova frontiera” omeopatica, la furbesca tesi che l’omeopatia serva come rimedio “integrativo”, non sostitutivo, della medicina convenzionale. Questa idea ha il vantaggio di non sottrarre i pazienti ai trattamenti realmente efficaci, senza introdurre nulla che sia pericoloso, visto che, come è noto, il preparato omeopatico non contiene principi attivi di sorta. Non a caso, diverse società promotrici dell’omeopatia, appena morì Francesco Bonifazi, si affrettarono a condannare Mecozzi proprio per non avere integrato, ma sostituito, la terapia convenzionale – anche se proprio i massimi dirigenti di qualcuna di quelle stesse società aveva in precedenza scritto che i rimedi omeopatici erano da considerarsi quali validi sostituti degli antibiotici proprio nell’otite pediatrica.
L’idea dell’integrazione omeopatica di cure convenzionali si è fatta particolarmente strada in oncologia, tanto che la solita regione Toscana – da tempo all’avanguardia nella promozione di pseudoscienza di questo tipo – include l’omeopatia fra i Livelli Essenziali di Assistenza per i malati oncologici.
Ma dove sono le prove per integrare l’omeopatia alla medicina in ambito oncologico? Naturalmente, le prove attese, non potendo provenire da agenzie regolatorie (che non richiedono e non esaminano le prove di efficacia dei preparati omeopatici, ritenendolo a buon diritto un fatto inutile) devono essere ritrovate nella letteratura scientifica.
A dicembre del 2020, per esempio, la rivista “The Oncologist”, della Oxford Academics, ha pubblicato un articolo in cui si mostra come l’integrazione di un trattamento omeopatico possa aumentare la qualità della vita e addirittura la sopravvivenza dei pazienti malati di una grave forma di cancro al polmone, dimostrazione raggiunta attraverso il più sofisticato degli strumenti disponibili: uno studio clinico prospettico, randomizzato e controllato con placebo, su tre braccia e multicentrico.
Naturalmente, la cosa ha eccitato gli animi degli omeopati: il sito della Scuola Italiana di Medicina Omeopatica Hahnemanniana (Simoh), per esempio, ha rilanciato la notizia della pubblicazione attraverso uno scritto di Paolo Bellavite, esponente di punta dell’omeopatia italiana. Ora, il guaio è che, come ho molte volte sostenuto, una pubblicazione è solo l’inizio della valutazione di un risultato scientifico, non la sua consacrazione; e dunque, a dispetto di Bellavite e della Simoh, fin da subito sono emersi numerosissimi problemi nel lavoro in questione. I problemi riscontrati potrebbero spiegarsi facilmente con falsificazione e manipolazione dei dati originali, e infatti l’Agenzia Austriaca per l’Integrità nella Ricerca ha fatto una comunicazione in tal senso al comitato editoriale della rivista, che ha in seguito a questa pubblicato una “Note of Concern”, una segnalazione cioè che ci sono seri e sufficientemente fondati motivi per dubitare del lavoro in questione.
Ora, guarda caso, questa storia sembra proprio ripetere par pari il caso di qualche anno fa, quando fu ritrattato un altro lavoro che pretendeva di dimostrare l’efficacia dell’omeopatia, lavoro che, similmente a questo ultimo caso, fu accettato e rilanciato acriticamente dalla Simoh.
Ed ecco il punto: quante pubblicazioni-immondizia, ritrattate o comunque sospette, continuano ad essere presentate ai medici e ai pazienti come la “prova” che l’omeopatia funziona? Quante volte si dovranno verificare casi simili a quelli discussi, con il rilancio acritico di tale immondizia, prima che si eserciti la necessaria cautela e il necessario, meticoloso esame di ogni pubblicazione che sembra sostenere l’efficacia dell’omeopatia – cioè un fatto che dovrebbe cambiare tutta la nostra scienza?
Fisica, reti e "Progetto Manhattan"