Manifestazione del personale sanitario contrario all'obbligo vaccinale di aprile scorso (LaPresse)

Il Foglio del weekend

Pandemia, vaccini e pseudoscienza: il tradimento dei nuovi chierici

Gilberto Corbellini e Alberto Mingardi

Virologi ed epidemiologi intervengono da scienziati su questioni che con la scienza non hanno nulla a che vedere

La lotta tra “pro” e “contro” / è la peggior malattia della mente. Sen-ts’an, filosofo zen del VI secolo


Alla voce “pseudoscienza”, il dizionario Treccani riporta laconicamente: “Teoria, dottrina, corrente di pensiero e sim. che pretende di essere riconosciuta come scienza, pur essendo priva di fondamenti scientifici”. Ci sono però diversi tipi di “pseudoscienza”, di cui due più rilevanti. Il primo riguarda le teorie fondate sui numerosi bias che ostacolano l’uso del ragionamento scientifico. Chi lo pratica nega le prove che validano o confutano un fatto o un’ipotesi, oppure predica l’esistenza di prove o fatti indimostrabili. Una diversa pseudoscienza s’appoggia sull’autorevolezza o la riconoscibilità pubblica della scienza, o per meglio direi della dramatis personae dello scienziato, indipendentemente dai dati sperimentali. La praticano, più o meno consapevolmente, anche scienziati ed esperti quando paventano rischi o al contrario li negano in relazione a particolari fatti o decisioni, a dispetto di quelle prove che sarebbero necessarie per pubblicare una ricerca, o comunque per dare sostanza a una tesi secondo il metodo scientifico.

 

Al primo genere di pseudoscienza appartengono le tesi sull’inferiorità delle persone di questa o quella razza, così come quelle sugli atterraggi degli Ufo (naturalmente coperti dal governo americano) e la biodinamica, o la pletora di medicina alternative e di pseudoterapie. La seconda forma di pseudoscienza è raramente oggetto di riflessioni. È “pseudo” per la natura degli argomenti che adduce, ma non per chi li fa propri: di solito persone integrate nella comunità scientifica, o comunque di norma ragionevoli. La si vede all’opera soprattutto nelle situazioni dove sono in gioco fatti o spiegazioni incerte, ovvero dove la percezione del problema può caricarsi di connotati filosofici, religiosi o ideologici. Anche gli scienziati sono esseri umani e come tali hanno pregiudizi, idee, valori che condizionano il loro modo di pensare. Qualche esempio? La pseudoscienza del secondo tipo è molto presente nel dibattito pubblico quando si parla di uso civile dell’energia nucleare, di organismi geneticamente modificati in agricoltura, di evoluzionismo, di trattamenti dei disturbi mentali. 

 

La pandemia e le politiche di vaccinazione sono, oggi, un terreno d’elezione di questo genere di pseudoscienza. La pandemia ha prodotto in Italia forse più che in altri paesi alcuni fatti paradossali. Da noi la scienza e gli scienziati sono stati pressoché totalmente ignorati nell’ultimo secolo: cioè proprio a partire da quando il lavoro scientifico ha cominciato a produrre evidenze più solide, utili anche per le decisioni politiche. È, com’è noto, il meno apprezzabile dei lasciti di Benedetto Croce, l’esito del prevalere della cultura umanistica, eccetera.

 

Dall’oggi al domani ci siamo trovati con decine di scienziati ed esperti in televisione ventiquattro ore al giorno. A parlare a un pubblico che per metà non è in grado, perché gli mancano gli strumenti, di capire cosa significano R0 o Rt, CFR, proteina spike, sequenze genomiche del virus, vaccini a Rna e adenovirali, etc. In assenza di una comunicazione istituzionale che aiutasse a capire davvero, partendo dall’abc, che cosa stesse accadendo con la pandemia e perché la situazione fosse così incerta o imprevedibile, abbiamo visto rapidamente la comunicazione degenerare in liti fra scienziati ed esperti, che se le suonavano di santa ragione. La durata dei lockdown, l’efficacia delle mascherine, la virulenza (spesso confusa con la trasmissibilità) del virus, strategie le più diverse per trattare i malati, l’uso dei ventilatori: tutto questo non è stato oggetto di una comunicazione ponderata, che sottolineasse puntualmente come stessimo navigando in acque inesplorate. Com’è comprensibile, le persone chiedono certezze. Com’è inevitabile, i media cercano di fornirle loro. Meno commendevole è che gli scienziati si prestino a fornire rassicurazione o paura à la carte, assecondando le ipotesi dell’intervistatore o dell’autore del programma televisivo secondo i gusti del suo pubblico.

 

In altri paesi occidentali non è andata così e gli interventi degli scienziati sui media sono stati più parsimoniosi o (auto)controllati. Quando giornali e tv hanno dato conto del dibattito scientifico, delle diverse ipotesi in campo, che è normale ci siano innanzi a un fenomeno come la comparsa di un nuovo virus, si è scelto di darne conto evitando fraintendimenti, con messaggi ufficiali. Ci sono stati spazi e tempi dedicati all’alfabetizzazione della popolazione, per esempio in Francia e nel Regno Unito. Il nostro servizio pubblico radiotelevisivo, invece, è stato spesso fonte di confusione. 

 

Comprensibilmente, in tutto il mondo, la politica si è da subito rivolta agli scienziati e agli esperti, perché un problema biologico e medico richiede l’acquisizione di dati e conoscenze, per decidere dove, come e quando intervenire. In altri paesi, costruendo spazi di dialogo e senza apparenti momenti di conflittualità o contraddizioni esasperate e strumentali. Da noi gli scienziati/esperti si schieravano pro o contro qualunque cosa. Così, una naturale dialettica tra studiosi declinava nelle discussioni politiche e nei media in polemiche  dove appunto le persone, e gli scienziati in primis, sentivano di dover difendere una tesi e ricorrevano a qualunque strategia retorica per farlo.

 

Esperti internazionali di metodologia medico-sanitaria hanno notato che nell’analisi della pandemia ha prevalso la cosiddetta armchair epidemiology, cioè lo studio della dinamiche pandemiche effettuato stando seduti al computer e facendo girare algoritmi che prescindevano da qualunque controllo sul campo. A partire da questo modo di procedere, possono commettere errori anche gruppi con spiccate competenze scientifiche. In Italia sono diventati il pane quotidiano. Una volta eravamo tutti commissari tecnici della nazionale, poi siamo diventati tutti epidemiologi. I numeri ufficiali dell’Iss, già poco trasparenti, erano oscurati da galassie di estrapolazioni contraddittorie frutto di mera fantasia analitico-statistica. Secondo il costume nazionale, il dibattito è prevalso sulla divulgazione: cioè sul tentativo, lasciato a pochissimi, di fornire non “numeri” ma “dati”, nel senso di elementi di fondo, necessari per avere una pur rudimentale comprensione del fenomeno epidemico.

 

Con l’arrivo dei vaccini, il circo mediatico si è spostato su una questione ancora più divisiva del virus e di Covid-19. Nonostante alcuni scivoloni sul vaccino Oxford/AstraZeneca, che probabilmente ci sono costati una certa quota di nuovi “esitanti” al vaccino, il processo di vaccinazione è marciato con rassicurante regolarità per mesi, grazie alla professionalità del generale Figliuolo. Poi qualcuno, ispirandosi alle decisioni di Macron, ha calato sul tavolo della discussione la carta dell’obbligatorietà. Qui non interessa tanto discutere di obbligatorietà in sé o nel merito, ma di come gli scienziati ed esperti hanno presentato o difeso tale opzione, ovvero del ricorso da parte di chi si batte contro la pseudoscienza ad argomenti pseudoscientifici per affermare che la vaccinazione deve essere resa obbligatoria per tutti. Che l’obbligo vaccinale possa avere senso e lo abbia avuto in passato in numerose situazioni, è fuori questione. In Italia è obbligatoria una decina di vaccinazioni pediatriche e anche gli adulti sono obbligati a essere vaccinati, per esempio contro la polio. Ma in un paese libero, non in Cina (e, a dire il vero, persino in Russia), si deve partire dalla libertà di scelta come condizione di default.  La libertà di scelta degli individui significa considerare questi ultimi come adulti responsabili (le vaccinazioni obbligatorie, come è stato ricordato da più parti, non a caso si fanno prevalentemente a bambini ancora soggetti alla patria potestà e che potrebbero essere figli di genitori irresponsabili) e vuol dire, da parte delle autorità di governo e scientifiche, riconoscersi il dovere di persuadere con argomenti opportuni e una comunicazione efficiente. La differenza cruciale fra minori e adulti è proprio questa: i bambini si obbligano, per esempio, ad andare a scuola, supponendo che essi non capiscano l’utilità di questo investimento in capitale umano. Gli adulti sono liberi di studiare Chimica o Scienze politiche o di entrare invece sin da subito nel mondo del lavoro.

 

Per deviare da questa condizione, ci devono essere le prove che la campagna di vaccinazione non sta andando bene, che è l’intervento necessario da farsi, che le condizioni epidemiologiche e sanitarie non ammettono alternative. Così funzionano le società libere. Quello che colpisce è che in Italia le prove, cioè che saremmo in ritardo, che lieviterebbe il movimento no vax, che l’obbligo accelererebbe significativamente la campagna, etc., per ora non ci sono. Siamo il paese con una delle più alte percentuali di vaccinati, e il rallentamento di cui si parla non pare dipenda da indisponibilità a vaccinarsi, visto che comunque i presunti renitenti over 60 non sono per ora mai stati contattati (non sarebbe un compito perfetto per i medici di medicina generale?), ma da disallineamenti fra la tabella del generale Figliuolo e quelle delle regioni. L’obbligatorietà può servire per alcune categorie, come insegnanti e sanitari. Cercare di imporla anche a chi entra in un bar con la mascherina per consumare un caffè è questione un po’ diversa. Riflette un approccio paternalista, per cui i cittadini non hanno mai raggiunto la maggiore età e vanno trattati di conseguenza. Il guaio è che a furia di trattare le persone come bambini poi si comporteranno pure come tali.

 

Scienziati ed esperti però dicono di sapere, e forse “sanno” a un livello intuitivo,  esattamente come chi dice di sapere che l’arnica cura le infiammazioni, che è necessario l’obbligo. E adottano un atteggiamento paternalistico. C’è un rischio elevato, che potrebbe diventare più evidente nelle settimane: si può danneggiare la percezione di una conquista straordinaria della scienza applicata, che sono le vaccinazioni. Di certo ricorrendo a formule che sanno di guerra santa scientifica non si aiuta a costruire fiducia nella scienza. Fare appello a fatti non provati o usare argomenti fondati sull’autorità o non pertinenti, fa solo della pseudoscienza e non rispetta le libertà fondamentali dei cittadini e lo stato di diritto.

 

La situazione francese è diversa e in quel paese si rischia di non vaccinare neppure metà della popolazione, ma nemmeno Macron rende la vaccinazione obbligatoria, condiziona l’esercizio di comportamenti a rischio al possesso del green pass. La parola d’ordine è diventata “dobbiamo fare come i francesi” – ma solo nel caso dell’obbligatorietà, perché nessuno dice che dobbiamo imitarli anche nella politica energetica, dell’istruzione, della ricerca, etc. Uno psicologo forense di Yale, Dan Kahn, ha studiato empiricamente la comunicazione degli scienziati su diverse questioni controverse, tra cui le vaccinazioni, concludendo che gli scienziati e gli esperti tendono a credere, al di là dei requisiti che di solito pretendono dalla ricerca perché si ottengano risultati validi o veri, di sapere come stanno le cose anche quando parlano di questioni che non conoscono direttamente. La presunzione di sapere, di sapere più di altri e di stare per definizione dalla parte della verità si esprime nel bisogno di convincere il volgo ignorante, indottrinandolo. Un po’ come tradizionalmente erano intesi i chierici nel Medioevo. 

 

Dai tempi dei Lincei e della Royal Society, or sono circa quattro secoli, le comunità scientifiche sono in qualche modo autogovernate al loro interno da quella che Jacques Monod chiamava “etica della conoscenza scientifica”, che le vincola a usare il postulato dell’oggettività come bussola pratica. Qualcuno pensa che questo modo di funzionare della scienza abbia concorso a creare le nostre società libere, e a mantenerle tali. Apparentemente, negli ultimi decenni gli scienziati tendono ad accentuare le dimensioni e gli effetti polarizzanti, culturali e sociali delle questioni scientificamente controverse, cioè a ignorare l’etica della conoscenza scientifica. È paradossale, ma sembra quasi che gli scienziati siano diventati i nuovi intellettuali organici al potere, e che di fronte a situazioni di emergenza e controverse stiano tradendo i valori che ne dovrebbero ispirare il lavoro. A quasi un secolo dal classico di Julien Benda forse è in atto un altro “tradimento dei chierici”.

 

Come la salute, la libertà, quando c’è, si tende a darla per scontata. Ma non è così. Le libertà e la democrazia nel mondo moderno sono emerse e si mantengono a galla, in mezzo a un oceano di pseudoscienza, perché gli scienziati, da quando sono comparsi  cioè da tre-quattro secoli, cercano di fare pulizia delle falsità che le porterebbero a fondo. Finora lo hanno fatto con efficacia e di certo continuerà così. La pandemia però ha mostrato, ancora una volta, che in alcuni paesi e contesti socio-culturali questo lavoro viene meglio che in altri. Negli anni di Julien Benda, il tradimento degli intellettuali consisteva nell’aver abbracciato i nazionalismi, abbandonando l’ethos cosmopolita dell’illuminismo. Oggi la sfida è difendere la razionalità nelle scelte e decisioni che interessano il funzionamento di società divenute molto più complesse, e per questo ci si dovrebbe guardare dall’illusione di poterle governare e ricavare i benefici che producono usando un pensiero semplice.

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