cattivi scienziati

Perché non dubitare dell'efficacia dei vaccini contro le varianti

Enrico Bucci

Il vaccino Pfizer funziona contro le mutazioni del Covid e i ritardi di J&J non sono una tragedia

Eccoci alla prova del nove: l’efficacia neutralizzante dei sieri di pazienti immunizzati con due dosi di vaccino Pfizer è stata riscontrata contro tutte le diverse varianti che hanno destato preoccupazione. I risultati pubblicati sul New England Journal of Medicine dimostrano che anche la variante sudafricana, tutto sommato, è tenuta a bada dal vaccino (nonostante si perda un po’ di attività). Per le altre testate, incluse quelle recentemente emerse negli Stati Uniti, non si osservano effetti di gran rilievo.

 

Oltre a questa notizia, evidentemente molto buona, ve ne è anche un’altra, proveniente da un articolo pubblicato su Science. In uno studio molto interessante, si è andato a fare quello che si chiama “deep sequencing”, letteralmente “sequenziamento profondo”, in ben oltre 1.000 pazienti infettati ad alta carica virale. La tecnica utilizzata consente di distinguere le eventuali variabili presenti o emergenti all’interno di ogni singolo paziente. In altre parole, si può dare un’occhiata all’evoluzione della popolazione virale durante la sua permanenza in un paziente, ottenendo informazioni sulla moltitudine di genotipi virali eventualmente presenti in quel paziente in un dato momento. Sugli oltre mille pazienti esaminati in questo modo, si è trovato che, tutto sommato, il virus muta poco, mantenendo una popolazione virale piuttosto omogenea all’interno del singolo soggetto.

 

Non solo: al momento dell’infezione si è notato un collo di bottiglia strettissimo, con un “effetto fondatore” molto pronunciato – vale a dire con virus estremamente omogenei fra loro che passano da un paziente a un altro. Questo significa sia che pochi virus bastano a infettare un paziente e a generare l’intera popolazione nel nuovo ospite, sia soprattutto che questa, nonostante si espanda molto durante il decorso dell’infezione, di fatto muta di poco. Nuove varianti immunoevasive possono evolversi in un paziente solo se vi è tempo sufficiente, come ad esempio in pazienti immunodepressi, ove l’infezione per ovvi motivi dura molto a lungo, oltretutto magari sotto l’effetto selettivo di lunghi trattamenti con anticorpi monoclonali o plasma. Ecco perché, almeno per ora, i vaccini sviluppati sulle varianti di gennaio 2020, nonostante siano stati infettate centinaia di milioni di persone, sono ancora funzionanti a un livello più che buono; ed ecco perché, per quel che al momento sembra di capire, una buona sorveglianza mediante sequenziamento e test di eventuali nuove varianti emergenti dovrebbe comunque darci il tempo di adattare i vaccini, ove ve ne fosse bisogno. Per i motivi suddetti, anche la notizia di possibili rallentamenti nelle forniture vaccinali, come appena successo per il vaccino Johnson&Johnson, per quanto sia una pessima notizia probabilmente non sarà una frenata sufficiente a fare perdere di efficacia il vaccino, come sarebbe invece successo con un virus diverso – poniamo, quello dell’influenza stagionale. Grazie alla biologia di Sars-CoV-2, abbiamo qualche tempo per porre rimedio agli inevitabili intoppi di produzione e distribuzione: facciamo in modo di non aggiungerci burocrazia, regionalismo e stupidità, e cerchiamo di usare al meglio tutte le dosi che abbiamo, il più presto possibile.

 

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