Il Covid in tribunale

Luca Simonetti

L’ordinanza del Consiglio di stato che boccia la decisione dell’Aifa e autorizza l’uso dell’idrossiclorochina apre una nuova pagina dell’arbitrio giudiziario sulla scienza

La pandemia da coronavirus comincia ad affacciarsi alle aule di tribunale. La vicenda che ci interessa comincia quando l’Aifa (Agenzia italiana del farmaco), come tante altre autorità sanitarie nel mondo, in un primo momento (con determina n. 258/2020) autorizza la somministrazione off-label, cioè al di fuori delle indicazioni terapeutiche approvate, dell’idrossiclorochina (in origine, un farmaco antimalarico) ai pazienti Covid-19. Infatti inizialmente aveva dato speranze il fatto che, in alcuni esperimenti in vitro, quel farmaco mostrasse qualche efficacia contro la glicosilazione del coronavirus. In un secondo momento, però, l’Aifa, visti i molti nuovi studi che dimostravano la inefficacia in vivo e perfino la probabile tossicità della sostanza, e dopo una raccomandazione in tal senso dell’Ema (Agenzia europea per i medicinali), revoca tale autorizzazione (con nota del 29 maggio 2020), salvo che nell’ambito di trial clinici, nonché la rimborsabilità del farmaco da parte del Servizio sanitario nazionale (Ssn), originariamente concessa.

 

A questo punto, un gruppo di medici impugna al Tar del Lazio il provvedimento dell’Aifa, sostenendo che l’Aifa non avrebbe adeguatamente considerato la letteratura scientifica esistente e lamentando la violazione del loro diritto di prescrivere i farmaci ai pazienti sotto la propria responsabilità e secondo scienza e coscienza (come vuole invece l’art. 3.2 del d.l. n. 23/1998). Il Tar, con ordinanza n. 5911 del 14.9.2020, dà ragione all’Aia. Il provvedimento non viene impugnato al Consiglio di Stato. 

 

Poco tempo dopo la nota del 29 maggio 2020, l’Aifa aggiorna il suo provvedimento (con nota del 22 luglio 2020), confermandolo alla luce di ulteriore letteratura emersa nel frattempo. Anche stavolta, il gruppo di medici impugna al Tar il provvedimento. Il Tar respinge nuovamente (con ordinanza n. 7069 del 16 novembre 2020) il ricorso. I medici stavolta decidono di appellare la decisione al Consiglio di Stato, il quale infine, con una decisione piuttosto sorprendente (ordinanza n. 7097 del 10 dicembre 2020), accoglie il ricorso e sospende la decisione dell’Aifa.

 

Perché sorprendente?

A parte la singolarità di un’ordinanza cautelare di oltre trenta pagine (normalmente se ne scrivono un paio al massimo), per di più completate e pubblicate in sole 24 ore dall’udienza, va innanzitutto ricordato che si tratta di una decisione di natura cautelare, cioè presa in via d’urgenza, senza attendere i tempi necessari alla decisione sul merito: e, in ambito cautelare, il perimetro della decisione consentita al giudice è più ristretto di quello concesso nel giudizio di merito. Bisogna infatti verificare non già se abbia ragione Tizio o Caio,  ma solo se esistano grossolani errori di metodo dell’iter decisionale o se comunque sia verosimile attendersi che il giudizio di merito darà ragione agli opponenti. 
Le cose più sorprendenti dell’ordinanza sono soprattutto tre.

 

La prima è vedere il Consiglio di Stato discettare con molta serietà dell’ “approccio metodologico [non] irreprensibile” seguito dall’Aifa, di “setting non ospedaliero”, di “aspetti immunomodulatori” e di “endpoint primario”, quasi fosse in grado di discutere queste cose da pari a pari con gli esperti dell’Aifa e non ne avesse, viceversa, appreso l’esistenza e il significato solo leggendo gli atti di causa. La seconda è vedere il Consiglio di Stato strapazzare le norme di legge e le sentenze della Corte costituzionale. Un esempio eclatante: almeno una norma cruciale (l’art. 2.348 della legge n. 244/2007) viene completamente stravolta. Essa infatti prescrive che il medico non possa “in nessun caso” prescrivere un farmaco per un certo impiego off-label se, per esso, “non siano disponibili almeno dati favorevoli di sperimentazioni cliniche di fase seconda”.  Peccato però che questi “dati favorevoli”, per l’idrossiclorochina, latitano. Come se la cava allora il giudice amministrativo? Semplice: sostenendo che la norma non si applicherebbe nel nostro caso, perché “i dati della sperimentazione clinica di fase seconda, sulla base degli studi randomizzati, sono tutt’altro che univoci e attendibili e necessitano di ulteriori tempi e analisi per una loro conferma a fronte di una situazione emergenziale che non consente ulteriori attese” – cioè esattamente il contrario di quello che dice la legge!

 

La terza è vedere il Consiglio di Stato dichiarare solennemente di non voler fare una cosa, proprio quando si accinge a farla: “Non si tratta, come afferma Aifa, di sindacare il merito di scelte opinabili, ma di verificare se queste scelte siano assistite da una credibilità razionale supportata da valide leggi scientifiche e correttamente applicate al caso di specie. (…) In tale contesto, per quanto attiene all’esercizio della discrezionalità tecnica dell’autorità indipendente, il giudice amministrativo non può sostituirsi ad un potere già esercitato, ma deve solo stabilire se la valutazione complessa operata nell’esercizio del potere debba essere ritenuta corretta (…) senza che sia consentito al giudice amministrativo, in coerenza con il principio costituzionale di separazione dei poteri, sostituire le valutazioni, anche opinabili, dell’amministrazione con quelle giudiziali (…) Il giudice amministrativo deve poter verificare che l’amministrazione abbia applicato in modo corretto alla vicenda concreta, in conformità ai principî proprî del metodo scientifico prescelto (…), le regole del sapere specialistico applicabili al settore (…), ad evitare che la discrezionalità tecnica del decisore pubblico trasmodi in un incontrollabile, e dunque insindacabile, arbitrio.” Il Consiglio di Stato, cioè, dice di non voler sostituire le proprie valutazioni a quelle dell’Aifa, mentre fa esattamente questo. Come pure non si può non sorridere dei continui omaggi (il genere di omaggi che il vizio rende alla virtù, direbbe la Rochefoucauld) che il giudice amministrativo reca ai principi della evidence-based medicine e alla necessità di evitare il ritorno di “un pericoloso relativismo terapeutico o irrazionalismo decisorio, fondato su nebulose intuizioni curative, più o meno verificabili, del singolo medico, su pseudoconoscenze del paziente o addirittura su valutazioni di mera opportunità politica dello stesso decisore pubblico”, quando poi di fatto l’ordinanza autorizza proprio “l’irrazionalismo decisorio” fondato su “pseudoconoscenze” e “intuizioni curative” del medico o del paziente (come altro definire una scelta terapeutica che prescinde da qualunque prova e dal consenso della comunità scientifica?)

 

 

Sui profili scientifici della decisione del Consiglio di Stato si sono già autorevolmente pronunciati, su questo stesso giornale, Gilberto Corbellini (nell’editoriale “Il Tribunale del Covid”, Il Foglio del 12 dicembre) e Gennaro Ciliberto (con l’articolo in questo stesso inserto). Io mi limito a menzionare una delle conseguenze più assurde dell’ordinanza: se il giudice amministrativo può sindacare la decisione dell’Aifa sull’autorizzazione all’uso di un farmaco, allora perché lo stesso Consiglio di Stato non potrebbe entrare nel merito anche della decisione dell’Aifa se ammettere o meno il farmaco a rimborso del Ssn? Dove andrebbe a finire, allora, la discrezionalità dell’autorità indipendente? Se l’Aifa viene assoggettata a un così penetrante sindacato per ogni tipo di decisione di sua spettanza, che fine fa il chiaro intento del legislatore italiano (come di ogni altro Paese avanzato) di riservare le scelte sui farmaci a organismi di altissimo profilo tecnico-scientifico, tendenzialmente indipendenti dal potere esecutivo, se poi questa indipendenza viene continuamente violata dal sindacato del giudice amministrativo? Perché, diciamocelo, l’arbitrio del decisore tecnico-politico sarà pure brutto quanto si vuole, ma non è che l’arbitrio del decisore giudiziale sia meglio. E perché mai il Tar o il Consiglio di Stato dovrebbero essere più capaci o competenti dell’Aifa a leggere e valutare le evidenze scientifiche o la letteratura medica ? Chi si sentirebbe rassicurato da una simile situazione? Eppure è a paradossi del genere che conduce logicamente l’ordinanza del Consiglio di Stato.

 

Tra l’altro, nel corso del processo, l’Aifa ha dichiarato di non aver voluto affatto vietare ai medici di prescrivere off-label l’idrossiclorochina. Quindi il Consiglio di Stato ha senz’altro ragione a sostenere che il contenuto della decisione dell’Aifa impugnata dai ricorrenti non era questo, ma è anche vero che la dichiarazione dell’Aifa faceva praticamente venir meno la “materia del contendere” e apriva perciò la strada a una soluzione condivisa, senza necessità di giungere alla pronuncia. Proprio il fatto che il giudice amministrativo abbia voluto arrivare a una pronuncia in contraddittorio, riformando di forza una decisione che l’Aifa era disponibile a rivedere spontaneamente, ci mostra che l’intento del Consiglio di Stato era un altro. Ed è difficile non vedere questo intento nella volontà di riaprire una nuova stagione di interventismo dei giudici amministrativi nelle questioni tecnico-scientifiche, stagione che pareva (fortunatamente) chiusa dopo la fine dell’affaire Stamina. Quella fu la stagione in cui tentò di affermarsi, per via giudiziaria, la pretesa di pazienti e medici di adoperare qualunque farmaco o terapia volessero, senza curarsi delle risultanze scientifiche disponibili e dalle valutazioni delle autorità nazionali di vigilanza, intese come irragionevoli lacci e lacciuoli imposti alla libertà di cura, e quest’ultima a sua volta veniva assurdamente intesa come una sorta di “diritto alla speranza”, cioè come la pretesa di ricorrere a un certo farmaco o a una certa terapia nella convinzione, sprovvista di qualunque supporto scientifico, che potesse funzionare quando nessun altro rimedio era disponibile. E qualcosa del genere sembra oggi appunto propugnare il Consiglio di Stato, quando scrive che “l’applicazione pur doverosa e rigorosa di questo metodo scientifico, in una forma, per così dire, estrema, non può essere cieca e deve misurarsi (…)  con l’emergenza della situazione epidemiologica, senza condurre nel caso di specie ad un esito manifestamente irragionevole e sproporzionato, rispetto alla stessa finalità ultima di quel metodo (la cura più efficace del paziente), e cioè la negazione di ogni possibile cura, in assenza di altra valida alternativa terapeutica domiciliare, anche di una possibile terapia in grado di esercitare, se non una diretta – e tutta da confermare – azione antivirale, quantomeno un benefico o persino tenue meccanismo immunomodulatorio-antiinfiammatorio e di arrestare così dal principio – e solo dal principio – il decorso a volte fatale della malattia.” Cioè: visto che non ci sono altre cure, lasciateci provare questa, anche se è verosimile che non serva a nulla!

 

All’epoca quel tentativo venne respinto, per la ferma resistenza della comunità scientifica (nel caso Stamina) e anche della classe politica (nel caso Di Bella). Chissà se questa resistenza ci sarà anche stavolta.

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