Manifestazione no mask, negazionisti covid (foto Lapresse) 

CATTIVI SCIENZIATI

Raccontatori di balle

Enrico Bucci

Perché ne raccontiamo così tante? Perché ci piace ascoltarle? Un’antropologia delle bufale

Molto si è discusso di ciò che ci porta a ricercare e ad accettare le bufale più disparate, vittime, come vedremo, di diversi tipi di bias cognitivi: ma perché, in prima battuta, alcuni individui inventano le bufale e poi eventualmente propagano le loro invenzioni? Perché raccontiamo storie fantastiche, completamente disancorate dalla realtà, cercando di convincere altri e credendo sinceramente noi stessi che esse siano vere? Dopo tutto, se non nascessero nella mente di singoli ben determinati esseri umani, le bufale non esisterebbero; quindi, prima di esaminare le ragioni per cui crediamo nelle bufale raccontate da altri, dobbiamo porci la domanda del perché inventiamo bufale e, vista l’ubiquità culturale, storica e geografica di questo comportamento, quale sia il significato adattativo che ne ha favorito la sopravvivenza.

 


Per capirlo, possiamo considerare l’origine e l’importanza per la nostra specie dell’attività del raccontare in sé e per sé – attività che in inglese è ben riassunta nel termine storytelling. Gli studi in materia indicano abbastanza chiaramente quale potrebbe essere stata la sua origine: i racconti dei primi cacciatori-raccoglitori preumani, cioè di ominini appartenuti a specie antecedenti alla nostra. Le abilità necessarie al racconto sono antichissime: già nel secolo scorso, l’etologo e psicologo evolutivo Glen McBride ipotizzò uno scenario in cui il racconto avrebbe potuto evolvere addirittura in assenza di linguaggio verbale, utilizzando il mimo ritualizzato per descrivere per esempio lo svolgimento di una caccia di successo e così formare le nuove generazioni senza che esse dovessero necessariamente sperimentare attività pericolose. Il racconto, nella visione di McBride, sostituisce l’esperienza diretta nella formazione delle nuove generazioni, potenziando così l’apprendimento (perché i racconti possono essere molti di più delle esperienze praticabili) e diminuendo al contempo i rischi che l’essere spettatori di cacce reali o altri comportamenti pericolosi non innati comporta per i cuccioli delle specie non umane. Il racconto è dunque né più né meno che la rivoluzione che marca il passaggio dall’apprendimento per imitazione diretta – il più diffuso mezzo di trasmissione culturale in natura – all’apprendimento per trasmissione di esperienza codificata e intangibile, e quindi alla nascita di “culture di gruppo” di estensione e flessibilità molto maggiore che in qualunque specie non umana; e forse l’attività del raccontare è quella che più di ogni altra ha permesso agli ominini di adattarsi con successo fino a oggi.

 


Per quanto queste ricostruzioni siano convincenti, mancano di un elemento fondamentale: la prova che, effettivamente, l’attività del raccontare conferisca un vantaggio evidente ai gruppi e agli individui coinvolti. Alcuni indizi del ruolo che lo storytelling abbia conferito un vantaggio evolutivo ai nostri antenati possono essere tuttavia trovati tra i loro equivalenti culturali moderni. Per esempio, nelle tribù dei cacciatori-raccoglitori delle Filippine, un modello sociale molto studiato perché richiama le caratteristiche attribuite alle bande di Homo sapiens del paleolitico, la presenza di individui bravi a raccontare storie (non importa quanto ancorate alla realtà) è risultata positivamente correlata alla cooperazione fra gli altri individui del gruppo; inoltre, e questo è il punto cruciale, gli individui più bravi nel racconto sono risultati quelli mediamente a maggior successo riproduttivo, perché la loro accresciuta popolarità aumentava le chance di incontrare un numero maggiore di potenziali partner.

 


Nel complesso, dunque, ancora oggi i gruppi di cacciatori-raccoglitori con i migliori raccontatori sono quelli che sperimentano i vantaggi di una maggiore cooperazione, accrescendo la probabilità di tramandare i propri geni alla generazione successiva (concetto definito come “fitness di gruppo”); allo stesso tempo, i migliori raccontatori, grazie alla loro popolarità, raggiungono un miglior successo riproduttivo all’interno dei gruppi cui appartenevano, accrescendo il loro fitness individuale (cioè la probabilità di trasmettere i propri geni a un gruppo elevato di discendenti). E anche oggi il racconto migliore – cioè quello che “vende” meglio – è un tratto vantaggioso per chi esercita l’arte della bufala: per questo, non aspettiamoci che esso scompaia facilmente, o per il semplice sorgere di una nuova èra illuminata e razionale. Raccontarla grossa, specialmente nel bar di Internet, è ancora un bel vantaggio.

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