Ideologia climatista

Umberto Minopoli

Chiarimenti necessari sull’overshoot day e la demonizzazione del carbonio

James Ussher, arcivescovo anglicano irlandese, rivoluzionò il letteralismo biblico nel 1650 con i suoi Annales Origina Mundi, da allora testo chiave del creazionismo, in cui dall’esegesi rigorosa di date ed eventi delle Sacre Scritture, fissava la data della Creazione: il pomeriggio inoltrato del 22 ottobre del 4.004 a. C. E i fossili e le evidenze che già allora facevano ritenere la Terra più anziana di quella data? Accorgimenti di Dio, rispondono i creazionisti: trucchi per mettere alla prova la fede nella data assodata della nascita del mondo.

 

Di recente, si è diffusa la convinzione di una data ad quem per la fine del mondo: il 2050, con la definitiva implosione del clima procurata dall’uomo. Ma altre date millenaristiche, magari meno pretenziose, segnano la lettura e le considerazioni sull’ambiente e la vita del pianeta. Il Global footprint network (Gfn), un think tank ambientalista nato nel 2003, ha inventato l’orologio della sostenibilità: la data esatta (overshoot day) in cui, ogni anno, in anticipo sul 31 dicembre, l’umanità consuma l’ammontare delle risorse estraibili e producibili nell’anno (consumo di carne, pesce, prodotti agricoli, acqua, risorse energetiche ecc.), la biocapacità naturale, il budget di risorse annuali, naturali e materiali, disponibili all’umanità per cibarsi, sostenersi e soddisfare i suoi bisogni. Tralasciamo l’incognita dei sistemi di calcolo di questo ammontare: come si riesce a fissare un limite quantitativo, naturale, fisico a risorse rinnovabili o prescindendo dalla tecnologia utilizzata per produrne in quantità crescenti?

 

Ovviamente, più anticipata, rispetto al 31 dicembre di ogni anno, è la data di esaurimento della scorta annuale, più il pianeta entra in uno stress da sovrasfruttamento: cominciamo a mangiarci le risorse dell’anno successivo. Negli anni 60-70 il mondo era in equilibrio: consumava in media intorno al 73 per cento delle risorse annuali producibili. Negli anni 80 la svolta: il consumo superava il 100 per cento. Oggi ha raggiunto il 160 per cento. È come se ogni anno, richiamano gli analisti del Gfn, consumassimo le risorse annuali di una Terra e mezzo. Questo tasso di sfruttamento è il footprint ecologico, l’impronta ambientale che, annualmente, l’uomo lascia sulle risorse del pianeta.

 

Quest’anno la fine anticipata delle risorse dell’anno sarebbe avvenuta il 22 agosto 2020 (ovviamente l’ora precisa non è interessante). Con un leggero miglioramento sulle previsioni: con il lockdown e la recessione mondiale abbiamo, naturalmente, consumato di meno. Un fatto straordinario e contingente, si spera, ma i sostenitori del footprint ecologico ne traggono motivo di incoraggiamento: ridurre l’impronta si può, il sottoconsumo del lockdown, magari, è il modello che lo dimostra.

 

In occasione dell’overshoot day di quest’anno, la Stampa ha ospitato un lungo articolo del professor Mario Tozzi che riassume le tesi del Gfn. E le attualizza in termini di lotta ai cambiamenti climatici. È evidente che la tesi di una correlazione tra disponibilità e produzione di risorse naturali per il consumo (cibo e acqua) e cambiamenti del clima (riscaldamento) non è diretta e automatica. E anche, impresentabile: in un mondo ancora segnato da divari nell’uso delle risorse per il sostentamento, come sostenere l’idea di un taglio lineare nella produzione e sfruttamento delle risorse per cibarsi e sfamarsi? Come sostenere che un cinese o un indiano o un africano non debba proporsi di raggiungere i livelli di consumo di carne, di pesce, di prodotti agricoli, di energia che noi ci permettiamo?

 

Il sottoconsumo per contrastare l’overshoot sarebbe, davvero, impossibile da tradursi in policy compatibili con il progresso e le aspirazioni dei popoli. E allora? Il Gfn, in linea con la vulgata climatista, semplifica le cose: traduce l’imprintig ecologico, il tasso di sfruttamento delle risorse materiali e naturali, nel più agevole e comodo imprinting di carbonio. Che poi si riduce, ulteriormente (mentre in realtà sarebbe assai più complesso) alla sola emissione di anidride carbonica, l’indicatore già, abbondantemente, entrato nel cono d’ombra del discredito ambientalista. Questa semplificazione è solo all’apparenza più facile.

   

Il professor Tozzi, nell’articolo in questione, è costretto ad alcuni azzardi per conciliare impronta ecologica, overshoot e condanna del carbonio. Il più grande dei quali è quello di sostenere che le emissioni di CO2, che non si riescono a comprimere, sono la conseguenza della pretesa occidentale di “emettere quantità di anidride carbonica che non sono permessi agli altri”. Una tesi sorprendente. È il contrario: le riduzioni di emissioni occidentali non riescono, neppure in teoria, a compensare quelle dei grandi paesi energivori dell’Asia, a partire da Cina e India. Questo è il problema delle politiche climatiche, ridotte all’impronta di CO2, da 30 anni a questa parte. E la ragione del costante fallimento degli impegni programmatici delle Cop annuali sul clima. Insomma, comunque la si mette, dall’overshoot day alla demonizzazione della CO2, il punto centrale resta uno solo: l’ideologia dell’impronta di carbonio copre un azzardo sottoconsumistico, stagnazionistico e di decrescita che la retorica della sostenibilità non riesce a camuffare.

Di più su questi argomenti: