Ben Goertzel, fondatore di SingularityNet, presenta un robot con le sembianze di Philip K. Dick al Web Summit di Lisbona (foto Reuters)

il pensiero dominante

L'eterna illusione dell'uomo che verrà

Lo storico della scienza Alexandre Moatti indaga la “metafisica dell’evoluzione” che ha dato forma alle visioni transumaniste di oggi

Trasumanar significar per verba

non si poria; però l’essemplo basti

a cui esperienza grazia serba.

Dante Alighieri, Paradiso I

 

“La parola transumanesimo cela alcune ambiguità semantiche”, scrive l’ingegnere e storico della scienza francese Alexandre Moatti in un recente saggio intitolato Aux racines du transhumanisme. France 1930-1980. Si tratta di un’opera di carotaggio intellettuale nel retroterra di una scuola di pensiero solitamente associata alle visioni tecno-utopiche di imprenditori della Silicon Valley che, dalla fine degli anni Novanta, hanno preso a coltivare la speranza di un’accelerazione del genere umano verso un glorioso avvenire post-biologico. Non lo hanno fatto innanzitutto attraverso l’elaborazione di teorie sull’avvenire dell’uomo, ma con ingenti investimenti e ricerche negli ambiti tecnico-scientifici più promettenti per dare vita al sogno di una umanità liberata dai lacci della sua imperfezione e finitudine: nanotecnologie, intelligenza artificiale, tecniche biomediche per la life-extension, criogenia, cibernetica, manipolazione del dna, sviluppo di supporti non biologici sui quali trasferire l’esistenza una volta esaurite le funzionalità del corpo e molti altri percorsi per giungere all’agognata singolarità, il punto di non ritorno dell’evoluzione umana.

 

Gli adepti del verbo transumanista, strettamente inteso, abbondano da decenni nelle grandi aziende tecnologiche, e il direttore degli ingegneri di Google, il geniale inventore Ray Kurzweil, è diventato il simbolo di una filosofia futurizzante che suscita da una parte un certo senso di inquietudine e dall’altra genera un’irresistibile voglia di trasformarla in parodia. Kurzweil ingerisce duecento pillole al giorno per riprogrammare il suo assetto biochimico e ha conservato campioni di dna del padre perché è certo che lui, o chi verrà dopo, sarà in grado di resuscitarlo, scaricandolo i suoi tratti irripetibili in un corpo incorruttibile. E’ proprio a questo livello che sorgono le “ambiguità semantiche” di cui parla Moatti: il transumanesimo, oggi, è una specie di setta misterica, un culto per iniziati che vagheggiano di un avvenire promettente e terrificante che piomberà addosso all’umanità per accelerazione tecnologica, ma il transumanesimo che è al centro della sua indagine, prodotto in diverse forme nei laboratori intellettuali francesi tra il 1930 e il 1980, è una “teoria della libertà” che non è necessariamente legata al progresso tecno-scientifico. E’ una visione antropologica, una lente attraverso cui guardare non solo l’uomo che verrà, ma quello che è già. In questo modo, lo storico delle idee distingue le applicazioni odierne dalle promesse filosofiche su cui esse poggiano, spesso senza saperlo. 

 

Già una decina d’anni fa il politologo americano Francis Fukuyama, segnalando il transumanesimo come una delle tendenze più insidiose della nostra epoca, aveva notato che non è semplice separare i progetti elaborati negli avamposti della tecnologia dai loro antecedenti filosofici, e proprio questo è il tratto problematico della vicenda: “Anche se i rapidi avanzamenti nel campo della biotecnologia ci trasmettono spesso una certa inquietudine, la minaccia morale e intellettuale che rappresentano non è sempre facile da identificare. La razza umana, dopo tutto, è in una condizione piuttosto misera, se consideriamo le malattie che ci affliggono, le limitazioni fisiche e le nostre vite tutto sommato molto brevi. Mettiamoci dentro le gelosie, la violenza e i costanti stati d’ansia, e il progetto transumanista improvvisamente inizia a sembrare ragionevole”, scriveva Fukuyama. Il saggio di Moatti offre strumenti utili per mettere ordine in questa mistura di inquietudine e apparente ragionevolezza.

 

L’autore francese parte da una definizione contemporanea comunemente accettata del transumanesimo: “L’accelerazione dell’uso della scienza e della tecnica per migliorare la condizione umana attraverso l’aumento delle capacità fisiche e psichiche degli esseri umani”, un processo reso possibile dalla “convergenza di nanotecnologie, biotecnologie, tecnologie informatiche e scienze cognitive”. Questa definizione, sostiene Moatti, è incompleta, perché si limita a identificare l’ultima manifestazione storica di una vicenda intellettuale che va avanti almeno da un paio di secoli e che nel cinquantennio preso in considerazione ha visto una fase di fervente sviluppo. Gli intellettuali della composita famiglia proto-transumanista francese del novecento non idolatrano la tecnologia, anzi spesso “rimuovono deliberatamente qualsiasi connessione fra la parola e le tecniche per modificare l’umano”, inserendo la prospettiva del superamento dell’uomo all’interno di “una filosofia della libertà, sullo sfondo di una nuova era che si apre, e che inesorabilmente renderà l’uomo felice”. Insomma, quella raccontata da Moatti è la vicenda di intellettuali che hanno immaginato un balzo dell’uomo oltre se stesso, oltre la propria miseria e debolezza, oltre addirittura la propria finitudine, evocando, secondo prospettive tra loro anche molto diverse, una comune ascesi verso un nuovo stadio dello sviluppo.

 

Una riflessione particolarmente attuale in un momento in cui la pandemia che ha sconvolto il mondo ci porta a chiedere alla scienza risposte immediate e migliori previsioni per il futuro, mentre ci domandiamo se usciremo migliori, peggiori o uguali da questa crisi globale. Lo storico prende in esame un ampio ventaglio di intellettuali, organizzati secondo linee di convergenza filosofiche e storiche, ma sceglie tre punti di riferimento: Alexis Carrel, il medico e biologo autore di L’uomo, questo sconosciuto, che nel corso della sua complicata vicenda intellettuale e umana arriva a teorizzare la necessità del miglioramento della specie umana, rielaborando in senso eugenetico il concetto di “biocrazia” di Auguste Comte. Si trattava di promuovere attivamente la riproduzione fra gli individui migliori, “con lo scopo effettivo di costruire una società nuova”, guidata da una “élite meglio equipaggiata biologicamente”. Il secondo punto di riferimento di questa indagine transumanista è il padre Teilhard de Chardin, paleontologo gesuita che ha coniato la nozione di “ultra-umano” e attraverso lo sviluppo del concetto di noosfera è diventato il punto di riferimento per generazioni di intellettuali dell’era digitale, impegnati nella costruzione di intelligenze collettive che avrebbero permesso agli individui di estendere le proprie capacità cognitive. Teilhard de Chardin si riferiva all’incontro con Dio, alla contemplazione eterna, mentre molti dei suoi sedicenti seguaci contemporanei hanno sostituito il trascendente con la singolarità tecnologica.

 

Il terzo autore scelto da Moatti è il biologo e divulgatore Jean Rostand, promotore di una “trasformazione dell’uomo mediante l’uomo” che sarebbe avvenuta tramite un percorso di perfezionamento genetico. Sono profili intellettuali apparentemente molto diversi: un medico di impostazione positivista e convinzioni politiche conservatrici poi convertito al cattolicesimo, un sacerdote e scienziato che ha alimentato le sensibilità spirituali più disparate, ed è stato spesso e volentieri piegato alle esigenze più diverse, e un rappresentante dell’umanesimo francese con ampio successo divulgativo.

 

L’area di intersezione fra questi intellettuali si trova analizzando le loro idee attraverso la categoria interpretativa che Moatti chiama “darwinismo culturale”: “Il darwinismo culturale è la trasformazione della teoria scientifica di Darwin in una metafisica dell’evoluzione. Il concetto è senza dubbio più debole del darwinismo sociale, che è un’applicazione della teoria darwiniana alla società”, scrive Moatti, spiegando che la teoria scientifica dell’evoluzione ha partorito una metafisica dell’evoluzione che ha dato forma al pensiero di intere generazioni di intellettuali. A partire dagli anni Trenta, sostiene l’autore, anche chi non condivideva la prospettiva di Darwin ha assunto lo schema evoluzionista come chiave di lettura antropologica fondamentale, immaginando, secondo diverse forme, lo slancio dell’uomo verso il suo progressivo e necessario perfezionamento, in un rapporto di inevitabile tensione con gli orrori umani che andavano in scena sul palcoscenico della storia. Eppure, la Seconda guerra mondiale si chiude con un rinnovato e decisivo slancio verso la possibilità di rinnovamento dell’umanità, assistita dalle conoscenze scientifiche e tecnologiche che pochi anni prima erano state usate per gli scopi più turpi.

 

L’importanza (e l’attualità) del saggio di Moatti non risiede soltanto nella capacità analitica dello storico, che annoda molti fili della storia intellettuale francese in un ordito coerente; ma consiste soprattutto nella sua abilità di mostrare, dietro alla complessità dei dibattiti intorno all’uomo che verrà, la stabile impalcatura che li ha sostenuti, quella “metafisica dell’evoluzione” che ha accomunato pensatori in apparenza molto diversi. E’ la stessa metafisica che ha modellato il transumanesimo contemporaneo, che non è soltanto una collezione di stranezze di eccentrici miliardari libertari con il pallino dell’immortalità, ma una visione che sostiene il dibattito sul domani. Moatti cita come massimo profeta e divulgatore di questa visione lo storico israeliano Yuval Noah Harari, secondo il quale “non c’è motivo di pensare che sapiens sia l’ultima fase dell’evoluzione”. Del resto, sostiene Harari, “l’umanità sta acquisendo in fretta qualità che abbiamo storicamente attribuito al divino”.

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