Demi Moore in una scena del film “The Substance” (2024) diretto da Coralie Fargeat 

specchio delle mie brame

Pillole e intrugli. Viaggio nell'industria della salute

Stefano Cingolani

Dagli integratori ai farmaci per perdere peso alla chirurgia estetica. Le estreme conseguenze della paura di invecchiare e dell’ossessione per la prestanza fisica, di cui si nutrono i colossi

Nel mondo dell’intelligenza artificiale diventeremo immateriali; in principio era il Logos, l’alfa e l’omega dell’umanità, il pensiero che pensa se stesso. Forse. In attesa della società della mente, domina ancora la società del corpo. Tutto ruota attorno a questo involucro di carne e sangue, il messaggio e il suo contenuto, la sovrastruttura e la struttura. Sì, anche l’industria. Due anni fa un clamoroso sorpasso in borsa aveva sorpreso tutti: la conglomerata del lusso, la LVMH costruita da Bernard Arnault, aveva ceduto la corona d’Europa a un’azienda danese chiamata Novo Nordisk che offre la cura per la malattia della società opulenta, l’obesità. Intendiamoci, non stiamo parlando di maghe e guaritrici, ma di farmaceutica, tuttavia il successo di massa non è dovuto tanto alla cura del diabete, lo scopo originario, quanto al suo uso improprio alla stregua di un integratore alimentare. Già, gli integratori, una giungla di promesse per i molti infelici e una messe di profitti per i pochi fortunati. Tra Natale e Capodanno quante pillole e quanti intrugli ingurgiteremo nella speranza di depurarci da cene e cenoni, zamponi e panettoni? Chi è senza peccato di gola scagli il suo primo probiotico. LVMH e Novo Nordisk sono emblemi paralleli. Entrambi nascondono il loro lato oscuro: il colosso francese coltiva l’opulenza costi quel che costi, il gigante danese si nutre dei frutti perversi del benessere; LVMH è l’ultima ricaduta dell’edonismo globale, Novo Nordisk lavora per l’ambizione più grande dell’uomo che non è (ci perdonino gli ignoti narratori biblici) gustare il frutto della conoscenza, ma ingoiare la pillola dell’immortalità. La vita stessa diventa una gara senza fine, un processo di auto-ottimizzazione che non conosce tregua. Non è certo una novità dei tempi nostri o della marxiana alienazione capitalistica. Uno dei maggiori storici della tarda antichità, l’irlandese Peter Brown, ormai novantenne, allievo a Oxford dell’impareggiabile Arnaldo Momigliano e autore tra l’altro di una insuperata biografia di Sant’Agostino, ha scritto un libro dedicato all’astinenza sessuale e al celibato che mette in relazione diretta il corpo e la società. Gli italiani sono tra i maggiori amanti degli integratori. Il giro d’affari supera i 4 miliardi di euro con oltre 50 mila occupati. Certo, è meno di un decimo rispetto alla farmaceutica nel suo complesso: nel 2024 la produzione è arrivata a 56 miliardi, (quest’anno andrà ancora meglio secondo le prime stime) e colloca l’Italia nel terzetto di testa in Europa insieme a Germania e Francia. Nel mondo gli integratori puntano a raggiungere i 200 miliardi di dollari nel 2013; anche in questo caso sono costole di una industria della salute che s’avvicina ai duemila miliardi. Tuttavia, se guardiamo alle imprese che sono cresciute di più troviamo proprio quelle che offrono prodotti contro l’obesità: l’americana Eli Lilly (+32 per cento) e la Novo Nordisk (+26 per cento).

 


La sindrome di Dorian Grey


La prestanza fisica è diventata un’ossessione, conduce a una spirale di auto-miglioramento che sfocia spesso in pratiche estreme e dannose, tanto più in quanto nasconde una proiezione metafisica. Ci si sono messi anche tecnocrati come Elon Musk e soci a illudere la compagnia degli anelli al naso che la tecnologia può darci quel che la natura matrigna ci nega. Una volta il corpo era visto come il tempio dell’anima, oggi è ridotto a un contenitore da riempire di significati artificiali, destinato a essere mostrato e giudicato in una piazza virtuale. Non accusiamo solo i social media, anche se hanno un ruolo importante nella iper-realtà digitale; in fondo la tecnica, dalla scoperta del fuoco ad oggi, è sempre stata il mezzo per superare i nostri limiti, per sfuggire al destino dell’Islandese leopardiano impotente di fronte alla gelida indifferenza della Natura. La variante perversa di questa aspirazione umana è quella che oggi devasta il corpo in nome della sua artificiosa immagine. Quale specchio ci dirà mai la verità e quando? La sindrome conosciuta anche come “gerascofobia” è un insieme di comportamenti dettati dalla paura estrema di invecchiare; è diagnosticabile quando la resistenza del soggetto ai normali cambiamenti dell’età diventa tale da assumere sfumature patologiche. Rappresenta una variante della più ampia dismorfofobia, diagnosticata per la prima volta nel 1891 dallo psichiatra italiano Enrico Morselli, e l’odio verso le proprie forme combinato con la paura d’invecchiare diventa un’ossessione, proprio come per il personaggio di Oscar Wilde. Ma il diavolo con il quale stringere il patto fatale oggi non è una figura retorica né un’entità metafisica, si può trovare persino al supermercato. Cosa succede quando a un uomo non più giovane viene data la possibilitàdi cambiare il corpo, ormai prossimo alla vecchiaia, con quello di un trentenne, bello e sano, con tutta la vita davanti? Lo scrittore Hanif Kureishi lo immagina e lo racconta nella sua novella intitolata “Il corpo”. Adam, narratore di successo, si sottopone a un innovativo esperimento chirurgico che gli permette di trapiantare il cervello nel corpo di un ragazzo. Ritrovate avvenenza e grazia, parte per un lungo viaggio, lasciandosi travolgere da piaceri perduti, fino a quando non si fa strada la mancanza di tutto ciò che è stato, ma la possibilità di tornare indietro si allontana inesorabilmente. 
Secondo Jean Baudrillard il corpo “è il più bell’oggetto di consumo”. Per lui e per tutta una scuola socio-psicoanalitica, il culto del corpo perfetto ha a che fare con la sessualità. Il filosofo francese lo ha scritto nel suo saggio “Lo scambio simbolico e la morte”: “Tutta la storia attuale del corpo è quella della sua demarcazione, della rete di marchi e di segni che lo suddividono, lo sminuzzano, lo negano nella sua differenza e ambivalenza radicale, per organizzarlo in un materiale strutturale di scambio/segno, al pari della sfera degli oggetti, per ridurre la sua virtualità di gioco e di scambio simbolico in una sessualità assunta come istanza determinante – istanza fallica interamente organizzata intorno alla feticizzazione del fallo come equivalente generale. E’ in questo senso che il corpo, sotto il segno della sessualità nella sua accezione attuale, cioè sotto il segno della sua ‘liberazione’, è preso in un processo il cui funzionamento e la cui strategia sono quelli stessi dell’economia politica”. Che cosa si nasconde dietro questo linguaggio alto e criptico se non prodotti come il Viagra o il Cialis? Il primo ha segnato il successo della Pfizer, il secondo ha consolidato quello di Eli Lilly. La moda dei tatuaggi fa parte essa stessa di questo scambio simbolico, il corpo diventa una tavolozza sulla quale mostrare la propria storia immaginaria, i propri desideri, i propri incubi. E’ un culto oscuro che fa da pendant al culto solo in apparenza luminoso della perfezione. Entrambi rientrano, direbbe Baudrillard, nell’economia politica. La chirurgia estetica, i filtri fotografici, i programmi di fitness estremi diventano strumenti di una narrazione distorta in cui il corpo perfetto è sinonimo di successo, felicità e potere. Ma non è che un inganno. L’uomo ideale era una finzione di Vitruvio e la Venere di Milo aveva la cellulite. La continua ricerca della idealità esteriore, il bisogno di apparire sempre al meglio, ci aliena dalla nostra identità profonda, dalla nostra autenticità. Il fisico diventa un progetto senza fine, un cantiere aperto in cui ogni miglioramento è solo temporaneo e mai sufficiente. Questa ossessione convive con un impulso autodistruttivo. La dipendenza da sostanze, i disturbi alimentari, l’autolesionismo, sono manifestazioni di un malessere profondo che trova la sua radice nell’impossibilità di raggiungere gli standard irrealistici imposti dalla società. E il legno storto dell’umanità, negato e nascosto, riemerge non solo per affermare il diritto a non essere raddrizzato con la forza, finendo quindi in pezzi, ma sotto forma di progressivo degrado fisico e mentale. Bisogna riconoscere che il perfezionismo edonistico è stato temperato negli ultimi anni e la moda ha fatto anche in questo caso da specchio rivelatore. Le passerelle, un tempo dominio esclusivo di corpi magri e tonici, hanno iniziato a includere modelli over-size, prendendo così parte a un movimento più ampio che riconosce la diversità e pratica la sua inclusività sociale ed estetica. Un cambiamento all’insegna delle buone intenzioni, positivo in sé, ma che provoca una reazione negativa: con l’impegno ad accettare tutte le forme del corpo, si finisce per normalizzare condizioni cliniche pericolose come l’obesità. Una condizione che comporta seri pericoli per la salute, dalle malattie cardiovascolari al diabete, e una ridotta aspettativa di vita. Presentarla come normale e accettabile, senza riconoscere i rischi associati, può avere conseguenze deleterie. E qui entra in campo quell’industria della quale abbiamo parlato all’inizio. 

 


L’alfabeto delle vitamine


A, B, C, D, E, fino a K, ogni vitamina ha una lettera e una funzione, nel linguaggio scientifico sono micronutrienti prodotti solo in parte dal nostro organismo, di qui la necessità di aggiungere, di darsi degli aiutini. I medici sono divisi: per gli scettici non  servono a niente, meglio una dieta equilibrata; per i modernisti è opportuno prenderle anche perché gli alimenti oggi non sono più quelli di un tempo; i possibilisti si limitano ad alzare le spalle: male non fanno, decidano i pazienti. Ci sono due grandi categorie di vitamine: quelle idrosolubili, che quindi si sciolgono in acqua, e quelle liposolubili, che si sciolgono invece nei grassi (o per meglio dire nei lipidi). Al primo gruppo appartengono la vitamina C e le vitamine del gruppo B, mentre al secondo le vitamine A, D, E e infine K. Il successo della C si deve a uno scienziato americano, Linus Pauling che nel 1954 aveva ottenuto il premio Nobel per la chimica e otto anni dopo quello per la pace, anche se la vitamina in tal caso non c’entrava nulla. E’ solo negli anni Sessanta che il pluripremiato comincia a ingozzarsi di pillole convinto di sconfiggere così, e per sempre, il raffreddore. Era arrivato ad assumerne 18 grammi al giorno, ben 300 volte la dose consigliata negli Stati Uniti. Si mette a pubblicare articoli e libri, tiene conferenze in giro per il paese, come i guaritori di un tempo che vendevano le bevande con le quali curare dai calli alla sifilide. In fondo anche la Coca Cola in origine era una bevanda magica ottenuta da foglie di coca e noce di cola. Decine di laboratori cominciano a lavorare per verificare la teoria di Pauling, con ricerche su ricerche, ma provando e riprovando trovano che il raffreddore arriva a chi prende la vitamina C e a chi no, grosso modo con la stessa frequenza e un’identica evoluzione settimanale. Non domo, lo scienziato ha continuato a vitaminizzarsi e si è convinto che la C fosse una cura contro il cancro se assunta insieme alle vitamine A ed E. Trent’anni dopo, la rivista Time ha messo in copertina le vitamine, infallibili armi contro tutto e per tutti, ma oltre ogni altra cosa nemiche dell’invecchiamento. La stella più luminosa di questi tempi è la vitamina D: la sviluppano i raggi del sole, ma non a sufficienza, soprattutto per chi ha un certa età. E allora vai con le pillole e i magici liquidi, integrare è ormai un modo di essere per sfidare il tempo, un mercato sempre più fiorente, un business che si sviluppa a fianco di quello farmaceutico; proprio le vitamine fanno parte di quel confine poroso. Così torniamo a Dorian Grey. Gli integratori, secondo il regolamento della legislazione alimentare dell’Unione europea, sono considerati alimenti oppure sostanze e preparati vegetali se non consistono esclusivamente in vitamine, sali minerali, pro e pre-biotici o altre sostanze nutritive. Il loro uso è disciplinato in Italia dal 2012, nella sezione “Sostanze e preparati vegetali”. In tutti i casi, la responsabilità di garantire la sicurezza di questi prodotti spetta all’operatore del settore alimentare che immette il prodotto sul mercato; una grande, grandissima differenza rispetto ai rigorosissimi controlli di efficacia e sicurezza attraverso i quali devono passare i farmaci propriamente detti, e un’evidente tentazione di autorizzare sotto l’etichetta di integratori prodotti per ogni tipo di uso. Fino ai falsi rimedi contro il Covid, contro la SARS-CoV-2. Le categorie più forti per valore nel 2024 sono probiotici, sali minerali e vitamine, mentre i prodotti per la tosse, le funzioni immunitarie e gli antiacidi registrano la crescita più rapida. Ma il business davvero redditizio riguarda lo sport, comprende tutti quei prodotti destinati a integrare la dieta di chi pratica attività fisica, migliorandone la performance, la resistenza o il recupero. Rientrano in questo mercato barrette proteiche, polveri a base di proteine o carboidrati, integratori idrosalini, aminoacidi, creatina, vitamine e minerali, acidi grassi (come omega-3), oltre a prodotti più recenti come stimolatori anabolici e ottimizzatori metabolici. Si calcola che il mercato globale di queste sostanze passerà da 49,6 miliardi di dollari nel 2024 a 94,3 miliardi nel 2033 (+90 per cento, CAGR medio 7,2 per cento). In Europa crescerà da 6,4 a 9,56 miliardi di euro nel periodo 2024–2031 (+49,4 per cento). In Italia, il comparto degli integratori sportivi crescerà da 1,03 miliardi di euro nel 2024 a 1,56 miliardi nel 2030 (+51,0 per cento), dopo essere già salito del +7,1 per cento tra il 2023 e il 2024. 
La struttura del mercato è sempre più frammentata, nonostante alcuni grandi attori internazionali. L’Italia è popolata da numerosi produttori medio-piccoli, con una forte spinta data dall’e-commerce e dalla moltiplicazione dei canali distributivi, il principale dei quali resta la farmacia (61 per cento delle vendite nel 2024), seguita da parafarmacie, supermercati, erboristerie. Amazon Italia distribuisce oltre 8,7 miliardi di prodotti, anche nel segmento sportivo. In Italia i principali player includono Enervit, Named Sport, +Watt, ProAction, MyProtein. Gli integratori sportivi coprono tutte le fasce di prezzo: le barrette energetiche e proteiche sono le più a buon mercato, per le proteine in polvere si va fino a oltre 60 euro, a seconda della qualità e del formato. La spesa è proporzionata a intensità dell’attività fisica e obiettivi (energia, recupero, potenziamento muscolare). Il profilo del consumatore italiano è trasversale: il 28,5 per cento della popolazione pratica sport in modo continuativo, con picchi nel Nord-Est (41,6 per cento). Il 71,5 per cento degli studenti universitari assume integratori, con preferenza per multivitaminici, proteine, energizzanti senza caffeina. Il 16,7 per cento segue una dieta vegetariana e il 3,9 per cento vegana, con previsioni di crescita a doppia cifra per il mercato degli integratori vegani. Gli integratori sportivi sono regolati dalla direttiva europea del 2002, devono essere notificati al ministero della salute, riportare dosaggi, avvertenze e non vantare proprietà curative. Le certificazioni di qualità sono sempre più richieste per contrastare frodi e contaminazioni, in un mercato che oscilla tra scienza, moda e rischio di abuso.

 

 

Le fabbriche del corpo


Quanti di questi prodotti vengono sfornati da Big Pharma? Prendiamo qualche marchio tra i più noti. La tedesca Bayer, oltre alla storica aspirina, fabbrica Supradyn, mentre la Pfizer, una delle eroine dei vaccini che hanno salvato migliaia e migliaia di vite strappandole dagli artigli della pandemia, ha prodotto Multicentrum (oggi della Haleon dopo essere passato per la Glaxo). Il successo di mercato del colosso americano si deve al Viagra, una medicina, un integratore, la magica pillolina blu che non solo ha “rifeticizzato il fallo”, ma ha offerto una terza vita alla terza età. Come il Cialis introdotto da Eli Lilly, che aveva già fatto il pieno di profitti con il Prozac, un farmaco antidepressivo il quale, entrato in commercio nel 1986, era diventato in poco tempo una sorta di salvavita nell’èra dell’edonismo reaganiano. A cominciare dagli Stati Uniti, dove non c’era un giovane rampante che ne potesse fare a meno, circolava a Wall Street ancor più della coca. Un medicina vera, dunque, usata come un integratore del successo e dell’insuccesso. Fondata nel 1876 dal colonnello Eli Lilly, veterano della guerra civile, la compagnia del Cialis è da oltre un secolo un pilastro del sistema americano. Lilly, nato a Baltimora, aveva combattuto con gli yankee, i nordisti, e catturato dai confederati passò un anno come prigioniero. A conflitto terminato pensò di coltivare cotone nel Mississippi, ma non andò bene, così riprese il suo originario mestiere di farmacista, fece quattrini con le capsule di gelatina e gli aromi di frutta, ma divenne milionario con il chinino e il succus alternans contro le malattie veneree. Fervente riformatore, si batté per una rigorosa regolamentazione dell’industria farmaceutica che attraversava un vero e proprio boom negli ultimi decenni del secolo. E’ considerato l’ispiratore della Food and Drug Administration istituita nel 1906. Farmaci salvavita e succhi miracolosi, di nuovo il confine poroso che caratterizza l’industria del corpo. Forse nessuna più della Johnson & Johnson, prima compagnia farmaceutica mondiale, ha prosperato un po’ di là e un po’ di qua. Il deodorante, lo shampoo, un farmaco anti riniti allergiche, Imodium, per non parlare del talco che le è costato 40 milioni di dollari di multa perché considerato legato al rischio di cancro alle ovaie. Due donne hanno portato in tribunale il colosso farmaceutico numero uno al mondo, e la Corte della California ha dato loro ragione perché la polvere sarebbe stata contaminata dalla presenza di amianto. In realtà non c’è rapporto di causa-effetto tra l’uso del talco e il carcinoma ovarico, ma pende sul capo quell’avverbio, “probabilmente”, usato dalla Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro. Anche in questo caso tutto era cominciato dal farmacista Robert Wood Johnson che, ispirato dal chirurgo Joseph Lister, decise di produrre disinfettanti insieme ai suoi due fratelli (Listerine è il collutorio più usato al mondo, introdotto dalla Johnson & Johnson e ora passato alla Kimberly Clark). Nessuno può negare che proprio la pratica costante dell’igiene sia il maggior contributo alla salute umana e al prolungamento della vita; diamo ai fratelli Johnson tutti i meriti che si sono giustamente conquistati e riconosciamoli anche alla stessa Novo Nordisk, sia chiaro. Guai a sembrare seguaci delle campagne contro Big Pharma o, tanto meno, del complottismo anti sanitario e anti scientifico dei no vax sdoganati dai politici di destra saliti al potere, ultimo, ma certo non per importanza, Donald Trump con quello svalvolato di Robert F. Kennedy Junior. Anche l’azienda di Copenaghen vanta una gloriosa storia nella farmaceutica: risale al 1923 e ha dietro il lavoro di August Krogh, premio Nobel nel 1920, e sua moglie Marie. Appresa la scoperta dell’insulina avvenuta in Canada, ottengono il permesso di produrla in Scandinavia. Così nasce la Novo, che nel 1981 produceva un terzo dell’insulina mondiale, al secondo posto dopo Eli Lilly, mentre la Nordisk era la numero tre. Nel 1989 avviene il matrimonio che proietta in alto la nuova compagnia danese. Il vero balzo, però, avviene grazie a Wegovy, farmaco il cui principio attivo è il semaglutide, che con un oculato tam tam mediatico diventa la pillola magica per uccidere il grasso superfluo. Eli Lilly viene sorpassata, ma reagisce da par suo: l’anno scorso torna in testa grazie al suo Zepbound (non disponibile in Italia), mentre in questo 2025 al tramonto Novo Nordisk fatica a tener botta. Il successo dei prodotti per dimagrire è il fenomeno di questi anni. Sono farmaci molto importanti, oltre che molto costosi, ma troppo spesso vengono presi alla stregua di integratori. Il Belgio e la Gran Bretagna due anni fa ne hanno vietato la vendita a chi non è seriamente malato, negli Stati Uniti o in Italia si vedono su ricetta medica. Non sono adatti a chi vuol perdere solo qualche chiletto. Molti studi hanno inoltre dimostrato che, una volta smesso di usarli, il loro beneficio scompare. Eppure resta troppo facile saltare il fossato della salute. Giunti alla fine della nostra fiera delle vanità corporee, come possiamo concludere? Un fatto certo è che la distinzione tra farmaco e integratore, chiara sulla carta, diventa nebulosa nella realtà. Più in generale, il ricorso ai supplementi alimentari fa male oppure siamo di fronte al più classico effetto placebo? Forse la risposta è che non lo sappiamo con certezza. E’ sicuro che fanno male al portafoglio, è sicuro che le pressioni per farli, per così dire, passare di categoria assimilandoli a farmaci diventano negative per le finanze pubbliche oltre che per il buon senso e per l’onore della scienza medica. Tuttavia, fanno parte di quella che è stata chiamata silver economy, l’economia che accompagna  l’invecchiamento della popolazione, fondata su bisogni veri e altrettanto vere illusioni, basata anch’essa sulla titanica e inane ricerca dell’immortalità.

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