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Cattivi scienziati

La svolta dello studio di ROME nella medicina di precisione in oncologia

Enrico Bucci

Il trial italiano appena pubblicato su Nature Medicine dimostra per la prima volta, in modo randomizzato, che trattare i tumori solidi metastatici in base al profilo molecolare migliora gli esiti clinici. Un passo decisivo verso una medicina personalizzata davvero efficace e applicabile

Per anni si è parlato della promessa della medicina di precisione in oncologia come se fosse già realtà: l’idea che il tumore debba essere trattato sulla base delle alterazioni molecolari che lo caratterizzano, indipendentemente dall’organo di origine, è intuitivamente affascinante. La realtà clinica è stata molto meno rosea. I trial “tumor-agnostic” davvero randomizzati sono stati pochissimi e con esiti non sempre convincenti. Il più famoso, lo studio francese SHIVA, ha confrontato pazienti trattati con terapie scelte in base al profilo molecolare contro lo standard di cura, senza trovare differenze nella sopravvivenza libera da progressione. Un altro studio, MOSCATO-01, ha invece centrato il suo obiettivo primario – dimostrare che, quando esiste un bersaglio molecolare azionabile, si può ottenere un beneficio clinico – ma era un disegno a braccio singolo, quindi senza confronto diretto contro le terapie di riferimento. Da qui la necessità di uno studio pragmatico, randomizzato, che mettesse davvero alla prova la strategia: eseguire una profilazione genomica completa, decidere il trattamento sulla base delle alterazioni trovate e verificare se questa scelta migliorasse gli esiti clinici rispetto allo standard.

Lo studio italiano ROME (acronimo di Randomized trial of Oncology precision Medicine), appena pubblicato su Nature Medicine, è il primo a dare una risposta positiva in questo senso. È un trial di fase 2, multicentrico, condotto in Italia in 40 centri, che ha arruolato pazienti con tumori solidi metastatici in progressione dopo una o due linee di trattamento e in buone condizioni generali (performance status ECOG 0–1, cioè senza limitazioni gravi delle attività quotidiane). I pazienti sono stati sottoposti a profilazione genomica estesa, utilizzando pannelli di sequenziamento su campioni di tessuto recente e su biopsia liquida, cioè l’analisi del DNA tumorale circolante nel sangue. Tutti i casi con alterazioni potenzialmente “bersagliabili” sono stati discussi da un Molecular Tumor Board nazionale, un gruppo multidisciplinare di oncologi, biologi molecolari e farmacologi che decide quale strategia sia appropriata, assegnando priorità ai biomarcatori con il livello di evidenza più solido secondo la classificazione ESCAT.

I pazienti ritenuti eleggibili sono stati randomizzati, cioè assegnati casualmente, a ricevere o una terapia personalizzata basata sul profilo molecolare, che poteva consistere in farmaci a bersaglio molecolare, immunoterapia con inibitori dei checkpoint immunitari o combinazioni, oppure la terapia standard indicata per quel tipo di tumore e per quella linea di trattamento. Complessivamente, tra ottobre 2020 e luglio 2023, sono stati sottoposti a screening 1.794 pazienti: di questi, 897 sono stati discussi nel Molecular Tumor Board e 400 randomizzati, metà per braccio.

L’endpoint primario era il tasso di risposta obiettiva (ORR, objective response rate), cioè la percentuale di pazienti con una riduzione misurabile e clinicamente significativa delle dimensioni delle lesioni. Il braccio di trattamento personalizzato ha mostrato un ORR del 17,5%, contro il 10% del braccio di controllo, con una differenza statisticamente significativa. Più impressionante è il risultato sulla sopravvivenza libera da progressione (PFS, progression-free survival), che misura il tempo mediano prima che la malattia ricominci a crescere: 3,5 mesi contro 2,8 mesi, con un hazard ratio di 0,66 (significa una riduzione del 34% del rischio di progressione). Ancora più eloquente la “coda” della curva di sopravvivenza: a un anno, il 22% dei pazienti del braccio personalizzato era ancora libero da progressione, contro l’8,3% dello standard. La sopravvivenza globale (OS, overall survival) non ha mostrato differenze statisticamente significative (9,1 mesi contro 7,9 mesi), ma oltre metà dei pazienti del braccio di controllo ha fatto crossover, cioè è passato a una terapia mirata dopo la progressione: un fatto eticamente necessario ma che tende a mascherare eventuali differenze di sopravvivenza. Anche gli indicatori secondari, come il tempo al fallimento del trattamento (TTF, time-to-treatment failure) e il tempo alla terapia successiva (TTNT, time-to-next treatment), sono risultati favorevoli alla strategia di precisione, suggerendo che il beneficio non è un artefatto di misurazione.

Un’analisi esplorativa ha mostrato che i benefici sono particolarmente marcati in alcuni sottogruppi di pazienti. Nei tumori con instabilità dei microsatelliti (MSI-H, microsatellite instability-high), che rappresentano circa il 3% di tutte le neoplasie solide, la PFS non è stata raggiunta nel braccio personalizzato e il 57% dei pazienti era libero da progressione a un anno, contro nessuno nel braccio standard. Nei tumori con alta mutational burden (hTMB, cioè un numero elevato di mutazioni per megabase di DNA), l’immunoterapia con inibitori di PD-1 ± CTLA-4 ha prodotto un hazard ratio di 0,64 e un 32% di pazienti liberi da progressione a un anno, contro l’8% dello standard. Nei pazienti con mutazione BRAF, il doppio blocco BRAF/MEK ha portato a un hazard ratio di 0,07 e a una sopravvivenza libera da progressione a un anno del 64,8% contro 0%. Nei casi con iperespressione di HER2, la PFS mediana è stata di 4,6 mesi contro 2,6. Il profilo di tossicità non è peggiorato, anzi le reazioni avverse di grado 3–4 (cioè severe) sono state leggermente meno frequenti nel braccio personalizzato (40% contro 52,5%), un dato che conferma che il vantaggio in efficacia non si paga con un danno aggiuntivo per il paziente.

Lo studio ha anche messo in luce i limiti della strategia: solo una minoranza dei pazienti arriva effettivamente a ricevere un trattamento personalizzato, perché in molti casi le alterazioni identificate non sono (ancora) bersagliabili con una terapia molecolare specifica, o perché le condizioni cliniche del paziente peggiorano troppo rapidamente per consentire di iniziare la terapia. Ma il fatto che, quando si riesce a somministrare la terapia su misura, si ottenga un vantaggio statisticamente e clinicamente significativo su endpoint solidi, segna un passaggio importante: la medicina di precisione, se applicata con metodo, produce un beneficio reale. Il messaggio è duplice: scientifico e organizzativo. Scientifico, perché conferma che la selezione basata su biomarcatori funziona, soprattutto nei sottogruppi “classici” come MSI-H, hTMB, mutazioni BRAF e amplificazioni HER2, ma anche in un contesto istologicamente eterogeneo. Organizzativo, perché dimostra che una rete nazionale di oncologia pubblica è in grado di profilare, deliberare e trattare in tempo utile. Il prossimo passo è anticipare questa strategia a fasi più precoci della malattia, quando i pazienti sono in condizioni migliori e il vantaggio può tradursi anche in un aumento della sopravvivenza globale, oltre che del tempo di progressione della malattia. La sfida non è più dimostrare che la medicina di precisione può funzionare, ma renderla accessibile e rapida per tutti i pazienti che ne possono beneficiare e iniziarla nel momento di massimo beneficio.

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