
Robert Kennedy Jr., attuale segretario americano della Salute, a una manifestazione No vax a Washington nel 2019 (foto Ap/LaPresse)
Contro il populismo sanitario
Il pluralismo sbagliato. Dagli Stati Uniti all’Italia, che cosa succede quando altre “sensibilità”, voci alternative alla conoscenza scientifica sono ammesse ai tavoli tecnici che indirizzano la politica. Ascoltare tutti, in tema di salute pubblica, non è democrazia ma uno scudo dell’arbitrio
In questi giorni, si sentono spesso impiegare le parole “libertà” e “pluralismo”, che sarebbero da utilizzare per prendere decisioni tecniche, quasi si volesse trasformare la valutazione delle prove in una contesa di opinioni. In realtà, attraverso il richiamo ai valori liberali che riecheggiano dietro queste locuzioni, il pluralismo viene piegato a criterio di accesso e di influenza nelle sedi tecniche, il metro dell’evidenza perde forza e la rappresentazione omogenea di tesi diseguali per qualità delle prove diventa il nuovo standard di legittimazione. Si intende qui mostrare che non si tratta di episodi isolati, ma di un dispositivo ricorrente, osservabile in diversi contesti occidentali, dagli Stati Uniti all’Italia, con esiti convergenti: raccomandazioni indebolite, stalli procedurali, decisioni presentate come “prudenziali” benché scollegate dal miglior bilanciamento di rischi e benefici e, alla fine, arbitrio della politica.
L’importanza del problema è immediata perché tocca l’architettura minima della democrazia liberale. Un parlamento decide legittimamente i fini e le azioni da attuare, ma non può rinunciare a un orientamento affidabile sui mezzi; questo orientamento, quando è in gioco la realtà fisica, biologica o sociale misurabile, dipende dalla capacità di distinguere ciò che è probabile e ben supportato da ciò che è soltanto dichiarato. La conoscenza scientifica, con i suoi standard pubblici di prova, fornisce la bussola per valutare conseguenze, effetti collaterali, rapporti costo–beneficio; senza questa bussola, il confronto tra opzioni scivola verso quello di narrazioni equivalenti, e l’“aver ascoltato tutti” diventa scudo dell’arbitrio.
Si pone dunque un nesso diretto tra qualità del discernimento imparziale e qualità della decisione democratica. Libertà e pluralismo restano valori non negoziabili sul piano dei diritti; ma, quando si passa alla formulazione di raccomandazioni tecniche, essi non possono essere in contrasto con l’obbligo di misurare le affermazioni con lo stesso metro di prova, fin dal loro ingresso nel dibattito. Se quel metro viene abbandonato o relativizzato in nome della rappresentanza di “sensibilità diverse”, non si sceglie più ciò che funziona meglio per fini dichiarati, ma ciò che è più comodo presentare come equilibrio tra voci.
Ragioniamo anzitutto su cosa significa libertà di espressione e di rappresentazione di un’opinione. La libertà tutela il parlare, il criticare, il proporre idee nello spazio pubblico, senza coercizione, neppure in caso di tesi erronee. Non conferisce però, da sola, un titolo per pesare nelle raccomandazioni che producono effetti su salute, ambiente, economia, sicurezza e in generale, bene pubblico. Per incidere lì serve un altro requisito: affermazioni sostenute da prove verificabili. Confondere la libertà di espressione con il diritto di rappresentanza nelle sedi in cui si accertano fatti porta a un errore pratico prima ancora che teorico: voci con diverso grado di riscontro nei fatti finiscono per essere trattate come equivalenti. Tenere separati i piani non limita la libertà; evita che venga usata per aggirare il controllo di qualità delle informazioni.
E’ quindi utile riconoscere che esistono due “pluralismi” diversi.
Il pluralismo politico garantisce spazio istituzionale a interessi e valori differenti: è la regola del gioco democratico.
Il pluralismo scientifico, invece, richiede di mettere a confronto ipotesi rivali sotto le stesse regole di verifica, così che conti ciò che regge meglio alla prova dei fatti.
Se si scambia il primo con il secondo, la competenza si riduce a opinione, e ogni opinione deve aver rappresentanza. Se si mantiene la distinzione, tesi alternative possono entrare, ma devono superare gli stessi controlli preliminari e di peso.
In scienza, se due affermazioni sono sottoposte allo stesso onere di prova e una lo soddisfa mentre l’altra no, non c’è equilibrio da rappresentare; c’è un esito. Non esistono manuali di geodesia terrapiattista. La retorica dell’equilibrio, invece, congela l’esito e lo riporta allo stadio di “controversia”. Un altro artificio ricorrente: l’invocazione di “ulteriori approfondimenti”. Il terzo passaggio è lo spostamento d’arena. La discussione viene sottratta ai luoghi dove il costo della prova è alto e l’accesso è regolamentato e trasferita dove il costo è nullo: talk-show, social forum, giornali
Il punto decisivo è il filtro d’ingresso nelle sedi tecniche. Non è garantito da “libertà” o “pluralismo”, ma dalla possibilità per chiunque di portare tesi il cui grado di verità sia accertabile e non già trovato nullo in precedenti esami: verificabilità, falsificabilità, dati disponibili, metodi trasparenti e onere della prova in capo a chi afferma. Portatori di ipotesi già falsificate, vuote, non testabili, o che rovesciano l’onere della prova chiedendo agli altri di smentirle, non sono ammissibili: non per censura, ma perché le loro idee mancano dei requisiti minimi per essere pesate. Questo è il punto dove cade la richiesta di pluralismo cui sono abituati i politici, e questa è la ragione per cui anche persone con un curriculum rispettabile possono essere escluse da un dibattito scientifico, così come possono esservi ammesse persone prive di credenziali, ma con una ipotesi che soddisfa i requisiti di accesso.
Come scardinare la discussione dei fatti
Nonostante quanto descritto sia ovvio e risaputo, esiste ed è noto da millenni, almeno dai tempi della filosofia classica, il meccanismo retorico che rende possibile lo scardinamento del metro delle prove. Il primo passaggio è uno slittamento nel dominio improprio del diritto di accesso al dibattito: dal diritto di parola – che attiene allo spazio pubblico – si pretende un diritto di rappresentanza nelle discussioni fra esperti e nelle sedi tecniche. La mossa consiste nel presentare la presenza al tavolo come requisito di “libertà” e “pluralismo”, spostando l’attenzione del pubblico dal filtro necessario nei confronti di contenuti non verificabili alla censura delle persone che li portano. In questo modo, la questione non è più se un’affermazione sia sostenuta da dati e metodi controllabili, ma se una “sensibilità” sia stata inclusa. Il filtro epistemico viene così aggirato: invece di chiedere che ogni ipotesi in discussione non sia in contrasto con i fatti noti, non sia inferiore a ipotesi concorrenti in quanto a potere esplicativo, non sia mal definita (consenta cioè di essere messa quantitativamente alla prova), si chiede al tavolo di garantire rappresentanza di tutti a priori. Per ammettere ogni ipotesi, inoltre, l’onere della prova viene rovesciato e la struttura stessa del vaglio tecnico perde presa, perché il foro di discussione viene ridefinito come arena di voci equivalenti e dove si pesano le teste, invece che le prove. Abbiamo infatti gli stregoni biodinamici che chiedono di stare nei tavoli tecnici di agricoltura, gli omeopati che pretendono che la loro pseudoscienza sia considerata una pratica come le altre, gli osteopati che arrivano a ottenere un percorso di laurea con l’apparenza di scienza che ne deriva, o i sostenitori di ogni balzana teoria che vogliono tutti una sola cosa: rappresentanza fino a prova contraria (ovviamente mai accettata), talvolta riuscendo nei loro intenti truffaldini come accaduto a Vannoni con Stamina, proprio grazie all’interessamento della politica e del suo pluralismo fuori luogo in ambito scientifico.
Il secondo passaggio è la costruzione del falso equilibrio. Si mette in scena una simmetria che non esiste sul piano delle prove, dichiarando che a una tesi consolidata debba sempre corrispondere una “controparte” per parità di trattamento. In scienza, se due affermazioni sono sottoposte allo stesso onere di prova e una lo soddisfa mentre l’altra no, non c’è equilibrio da rappresentare; c’è un esito. Non esistono manuali di geodesia terrapiattista. La retorica dell’equilibrio, invece, congela l’esito e lo riporta allo stadio di “controversia”, producendo stallo decisionale di fronte all’impossibile analisi di ipotesi già falsificate, di cui si chiede l’analisi ulteriore con aggiustamenti ad hoc, oppure impossibili a falsificarsi, per la vaghezza della loro formulazione. A questo punto entra in gioco un altro artificio ricorrente: l’invocazione di “ulteriori approfondimenti” senza specificare quali dati manchino, con quali metodi si intendano ottenerli e in che tempi. L’eterna revisione in attesa di nuovi dati sull’efficacia della biodinamica, o l’eterna attesa di tempi sempre più lunghi quanto al manifestarsi degli effetti collaterali che gli antivaccinisti sono certi debbano manifestarsi, sono casi tipici. Lo scopo è di rimandare indefinitamente una conclusione già giustificata dal materiale disponibile, trasformando la legittima cautela in sospensione permanente del giudizio – così continuiamo a discutere di omeopatia, biodinamica o simili sciocchezze all’infinito.
Il terzo passaggio è lo spostamento d’arena. La discussione viene sottratta ai luoghi dove il costo della prova è alto e l’accesso è regolamentato – foro dei pari, replicazione indipendente, sintesi sistematiche – e trasferita dove il costo è nullo: talk-show, social forum, giornali, conferenze stampa, consultazioni “aperte” senza criteri di ammissibilità. In queste arene si produce un capitale simbolico che, una volta accumulato, viene riportato nei comitati come “esistenza di un dibattito” o di “volontà pubblica”, allo scopo di rinegoziare l’accesso e il peso delle tesi. In termini operativi, si passa dalla domanda “quale tesi regge meglio ai fatti?” alla domanda “quale tesi ha una presa sociale sufficientemente ampia?” e la qualità della decisione scende perché il criterio di selezione non è più interno alle tesi enunciate e imparzialmente esposto al vaglio della natura, ma esterno all’enunciato e fondato sul gradimento più o meno ampio e su interessi più o meno diffusi.
Il risultato non è un dibattito più aperto, ma un metodo più debole: la decisione si allontana dal dato verificabile e si avvicina alla gestione delle narrazioni.
Una volta ridefiniti i criteri di accesso e la grammatica dell’analisi tecnica, la politica ottiene due risultati con un solo gesto: neutralizza i dispositivi di controllo sui fatti e si procura una copertura per la narrazione preferita, potendo dichiarare di aver “ascoltato tutte le sensibilità”. Non più politiche informate dalle prove disponibili, ma prove selezionate o sospese in funzione della politica prescelta.
Così la comunità scientifica viene esautorata nel suo compito centrale – stabilire, con metodi pubblici e replicabili, che cosa è ragionevole ritenere vero e con quale grado di incertezza – e la sede politica si emancipa dal vincolo della coerenza con le migliori evidenze disponibili, che scompaiono dalla scena. La scelta finale può allora essere presentata come prudente, equilibrata, persino “più democratica”, mentre di fatto è meno vincolata ai dati e più sensibile a convenienze contingenti. Si ottiene così un potere discrezionale amplissimo. E’ precisamente qui che la protezione dei cittadini si indebolisce: quando la “rappresentazione delle opinioni” sostituisce il requisito di aderenza ai fatti disponibili, eliminando un forte vincolo all’azione del potere.
Proprio questo è il processo che vediamo in atto in molte regioni del nostro pianeta; come esempio, considereremo gli Stati Uniti ed il nostro paese.
La protezione dei cittadini si indebolisce quando la “rappresentazione delle opinioni” sostituisce il requisito di aderenza ai fatti disponibili. Alternative facts, la versione del “pluralismo” negli Stati Uniti. Una falsa par condicio, anticamera dell’arbitrio. La gold standard science definita per ordine esecutivo. Il caso Nitag in Italia
Negli Stati Uniti, la versione locale del “pluralismo” si è cristallizzata in un termine che ormai è entrato nel lessico politico: “alternative facts”. Con questa formula si legittima l’idea che al tavolo tecnico possano sedere non solo tesi minoritarie, ma veri e propri contro-fatti, cioè affermazioni che non superano i test di verificabilità, presentate come un’opzione tra le altre. In linea con questa idea, si è per esempio proceduto alla rimozione in blocco dei 17 membri dell’ Advisory Committee on Immunization Practices (ACIP) del Center for Disease Control and Prevention (CDC), giustificata come azione per “ripristinare la fiducia”, trasformando un organo di sintesi pubblica delle prove utili a formulare le raccomandazioni epidemiologiche e vaccinali in un tavolo di nomina politica, con soggetti graditi all’amministrazione ed in particolare a Robert F. Kennedy Jr, storico antivaccinista che attualmente dirige la sanità. Poco dopo, le raccomandazioni federali per l’età pediatrica di vaccinazione si sono spostate verso la formula della “decisione condivisa”, nonostante l’American Academy of Pediatrics abbia pubblicato linee più aderenti alla letteratura proponendo la vaccinazione universale nella fascia 6–23 mesi. Nel frattempo, la cessazione di una ventina di progetti su piattaforme mRNA (quasi 500 milioni di dollari) è stata rivendicata come “prudenza” e “ascolto del pubblico”, nonostante forti critiche accademiche sul danno arrecato a linee promettenti. In questi esempi, si vede come il grimaldello del pluralismo nella discussione – l’ammissione degli “alternative facts” antivaccinisti – apre la strada al controllo politico: ciò che conta non è più quanto una tesi regge alle prove, ma il controllo degli organismi deputati alla formulazione delle tesi di salute pubblica.
La stessa torsione si è vista in Italia nella vicenda del Nitag (National immunization technical advisory group, il Gruppo tecnico consultivo nazionale sulle vaccinazioni). Dopo la revoca del gruppo decisa dal ministro della Salute, a seguito delle proteste della comunità scientifica contro due nomine con posizioni spesso antiscientifiche, una parte della maggioranza ha costruito una contro-narrativa in cui “pluralismo” non significa filtri più severi sulle prove, ma diritto di rappresentanza delle posizioni del pubblico. Le reazioni, fra gli altri, di Matteo Salvini, Francesco Lollobrigida, Galeazzo Bignami, Alberto Bagnai e altri esponenti dell’area di governo ha presentato lo scioglimento come “pessimo segnale” perché contraria al pluralismo di cui i soggetti in questione pretenderebbero di farsi alfieri, e la comunità scientifica come corporazione dogmatica che soffoca il confronto. In questa cornice, come abbiamo già visto la parola “pluralismo” funziona da piede di porco semantico: sposta il giudizio dal merito delle evidenze al diritto d’accesso delle opinioni, così che il filtro delle tesi in discussione e dei loro portatori venga percepito come abuso democratico anziché come tutela del metodo. Anche il disappunto attribuito alla presidente del Consiglio è stato nello stesso registro: non una parola sulla competenza dei componenti e sulla qualità delle prove che devono caratterizzare un organismo come il Nitag, ma una invocazione di “pluralismo” da tutelare. L’intento, come abbiamo visto, è trasparente: la politica vorrebbe liberarsi, a monte, del vincolo di coerenza con le migliori evidenze disponibili e del controllo dell’unica minoranza in grado di estrarre queste evidenze, la comunità scientifica.
Se tuttavia si normalizza l’idea che sia importante rappresentare ogni posizione, anche fatti alternativi, al tavolo della scienza con la scusa di non soffocare il dibattito democratico, come del resto fatto a suo tempo anche dalla parte politica avversa a quella oggi al governo (si pensi per esempio al ministro Maurizio Martina e alla sua richiesta di un “franco dibattito” sugli Ogm proprio su queste pagine), la società tutta perde la sua bussola imparziale per orientare scelte con effetti misurabili su salute, sicurezza, ambiente, energia, e in una parola ogni qualvolta conti interrogare il mondo naturale per prevedere cosa sia meglio fare. E’ precisamente ciò che molte analisi statunitensi hanno segnalato quando hanno denunciato che gli “alternative facts” non sono una ragione per sottrarsi ai vaccini, né un fondamento legittimo per rifare raccomandazioni o rifinanziare programmi: sono un modo di spostare l’asse decisionale dalla realtà misurabile alla negoziazione politica delle percezioni del pubblico.
In entrambe le esperienze, italiana e americana, la funzione pubblica della scienza viene esautorata nello stesso passaggio: si sostituiscono i requisiti di verificabilità, replicabilità e sintesi comparativa con la par condicio delle posizioni; si ribattezza apertura ciò che è, di fatto, libertà di manovra per scelte scollegate dalle prove; si presenta come pluralismo ciò che è soltanto indebolimento del filtro che protegge i cittadini dagli errori evitabili.
Negli Stati Uniti si è andati poi oltre, con l’introduzione di un concetto vincolante da parte della politica: la “gold standard science” definita per ordine esecutivo, che istituisce di fatto un commissario politico sulla scienza. L’ordine “Restoring Gold Standard Science” elenca principi condivisibili – riproducibilità, trasparenza, revisione tra pari, falsificabilità – ma affida a un “senior appointee” nominato politicamente il potere di stabilire che cosa è rilevante, di bollare come “non integri” studi scomodi, di elevarne a dismisura lo standard di certezza o di escludere intere aree (per esempio ampie porzioni di epidemiologia e scienze ambientali).
Un altro ordine esecutivo completa il disegno: tutta la filiera dei finanziamenti – priorità di ricerca, selezione dei progetti, continuità dei fondi – passa sotto la supervisione di un incaricato politico con mandato esplicito a “promuovere l’agenda presidenziale”, con peer review declassata a parere consultivo e la possibilità di interrompere immediatamente bandi e progetti già approvati se ritenuti non più allineati. Anche qui il messaggio è chiaro: non è più la comunità scientifica a fare la sintesi e a controllare la qualità, non è più il metro dei fatti e dell’analisi quantitativa a stabilire cosa sia più probabilmente vero, è la politica a selezionare cosa entra e cosa esce dal perimetro della “buona scienza”.
E’ l’istituzionalizzazione dell’“alternative facts” e la logica conseguenza del “vale tutto” pluralista in ingresso: abbandonata la metrica scientifica di valutazione, se i fatti contraddicono la linea stabilita, si escludono i fatti e si cambia il filtro, non la linea.
Ecco quindi che la dimostrazione pratica della tesi enunciata in apertura si disvela ai nostri occhi: il “pluralismo” distorto che la politica applica alla scienza non amplia il controllo di qualità, ma crea un varco per decisioni basate su “fatti alternativi” e per una gestione della scienza a misura di narrativa, perché l’abolizione di metriche oggettive di valutazione apre la strada all’arbitrio.
Tiriamo le somme
Dovrebbe a questo punto essere chiaro al lettore che esiste un criterio semplice per smascherare una pericolosa retorica usata dalla politica di destra e di sinistra quando vuole indebitamente occupare spazi che non le competono: quando “libertà” e “pluralismo” vengono invocati contro la “scienza dominante” (altra tipica perifrasi usata in questi casi) per giustificare la discussione di qualunque posizione. Nel dominio politico il pluralismo riguarda la rappresentanza di interessi e valori; nel dominio dell’accertamento dei fatti conta il passaggio obbligato per dati accessibili, metodi trasparenti, risultati ripetibili e sintesi quantitativa delle prove disponibili. Se si eliminano questi requisiti, non si tratta di apertura, ma di un espediente per svincolare decisioni da fatti, numeri e scienza, introducendo una falsa par condicio, anticamera dell’arbitrio. Il filtro d’ingresso in una discussione che riguardi fatti di natura, come nel caso delle valutazioni tecniche sulla salute del cittadino delle varie politiche vaccinali possibili, non è e non deve essere l’identità o la rappresentatività presso l’opinione pubblica, ma la verificabilità e la robustezza dei fatti a supporto: ipotesi vuote, già falsificate, non testabili o che rovesciano l’onere della prova non hanno titolo per incidere su raccomandazioni scientifiche.
Per questo, Matteo Salvini, Alberto Bagnai, Francesco Lollobrigida, Giorgia Meloni, Galeazzo Bignami e gli altri esponenti che rivendicano il “pluralismo” nei tavoli scientifici stanno costruendo una narrazione a loro conveniente, e non difendono la democrazia o la libertà: presentare lo scioglimento del Nitag come torto al pluralismo significa esattamente attaccare l’uso imparziale del metodo scientifico nel decidere quale sia una posizione degna di esame e quale no. Nel campo dei fatti non esiste diritto di rappresentanza che non sia quello delle misure e dei numeri, e la discussione si fa con il metodo della scienza nelle sedi opportune e prima di arrivare in comitati che debbono sintetizzare le prove disponibili. Chiedere posto al tavolo per posizioni o già smentite o prive di verificabilità (come la comunità scientifica nazionale tutta ha dichiarato nel caso del Nitag), non è tutela della libertà, è licenza di manomettere il metro di decisioni che, come quelle relative ai vaccini, dovrebbero basarsi sui fatti.
L’Italia non deve seguire la via degli “alternative facts” né quella del commissario politico sulla scienza: è la scorciatoia di Trump, non la nostra. Una maggioranza parlamentare ha legittimazione a scegliere i fini dell’azione politica nell’ambito delle previsioni degli effetti di tali azioni, non ad abusare di fatti, regole e metodo per ottenere previsioni consone ai propri interessi.
Chiamare “pluralismo” l’esenzione dai controlli della comunità scientifica, rendendo gli organi tecnici incapaci di emettere giudizi grazie alla forzatura “pluralista”, è togliere alla democrazia la sua bussola, in attesa di introdurre il commissario politico come in Usa.
E’ questo che si vuole per il nostro paese? E la comunità scientifica saprà reagire con unanimità, come accaduto per il Nitag, oppure, come per il “manifesto della razza” o più recentemente nel caso di certi documenti dei Lincei, inseguirà i desiderata della politica?