In questo pazzo mondo, parlare di salute mentale è sempre più necessario
Siamo di fronte a una vera emergenza sanitaria e sociale: per l’Oms i disturbi mentali sono cresciuti del 30 per cento dopo il Covid. Ecco perché non è un problema solo per addetti ai lavori. E perché se non adottiamo una lettura aperta e interdisciplinare non ne usciremo. Non la solita "Giornata internazionale"
Il 10 ottobre è la giornata internazionale dedicata alla Salute Mentale. Un appuntamento che potrebbe facilmente passare in cavalleria, visto il proliferare di "giornate mondiali dedicate a", un po' come accade con i tanti festival o i "Borghi più belli" spuntati come funghi in ogni angolo d'Italia. Se non che questa ricorrenza diventa invece una scusa importante per parlare di un'emergenza silenziosa, che colpisce le fasce più fragili della popolazione ed è connessa alla "policrisi" che stiamo vivendo in questi anni. E quindi è un momento utile per ricordare o sensibilizzare l’opinione pubblica sul fatto che solo un approccio interdisciplinare ci può aiutare
I dati sullo stato di salute mentale della popolazione raccolti negli ultimi anni sono sempre più allarmanti e stiamo assistendo a una vera emergenza sanitaria: l’Oms ha rilevato come le diagnosi di disturbo mentale siano cresciute del 30 per cento durante e subito dopo la pandemia. E questo dato non sorprende i professionisti del settore che hanno subìto, nella propria quotidianità, quello che l’Ocse e la Commissione europea definiscono “un peggioramento senza precedenti della salute mentale della popolazione, in particolare tra i giovani”.
Sono proprio i giovani a preoccupare di più, con un aumento vertiginoso dei disturbi d’ansia (28 per cento dei ragazzi) e dei disturbi depressivi (23 per cento), mentre uno studio condotto in Italia (Sinps su dati Cnr-Espad nel 2022) rileva che ben il 10,8 per cento dei ragazzi tra i 15 e i 24 anni “assume psicofarmaci senza prescrizione medica”.
In questi anni di "policrisi", ossia una situazione in cui più crisi diverse, ma interconnesse, si verificano simultaneamente, aggravandosi l'una con l’altra, non sorprende che i sintomi depressivi siano divenuti una vera "pandemia" che ha colpito duramente le fasce socio-demografiche più fragili: donne, persone disoccupate o in difficoltà economiche, oltre a quelle già a rischio di esclusione sociale (per discriminazioni connesse allo stigma associato a particolari condizioni personali, come l’orientamento sessuale o l’etnia). D’altra parte, con la combinazione esplosiva di crisi come la pandemia da Covid-19, le instabilità della politica internazionale, le disuguaglianze crescenti, il cambiamento climatico e le crisi energetiche, rimanere in salute mentale appare sempre più complesso.
Queste crisi, infatti, contribuiscono non solo ad alimentare disagi emotivi e disturbi psichici, ma non permettono di avere le risorse sufficienti per affrontarli in modo adeguato. In Italia, i Dipartimenti di salute mentale sono in perenna carenza d’organico: il 30 per cento in meno rispetto a quanto previsto dagli standard Agenas, recepiti in Conferenza unica stato-regioni e sottoscritti dal ministero della Salute, in cui si parla di almeno 83 operatori (psichiatri, psicologi, infermieri, educatori, tecnici della riabilitazione) ogni 100mila abitanti, mentre ora sono solo 55 per ogni 100mila abitanti. Numeri che rendono insostenibile il carico di lavoro, soprattutto alla luce dell’aumento delle richieste di aiuto e delle emergenze. Questo l’allarme lanciato in questi giorni dal Collegio nazionale dei direttori dei Dipartimenti di Salute mentale che richiede un investimento straordinario di almeno 2 miliardi per non far letteralmente collassare il sistema attuale di servizi.
Intervento straordinario richiesto a più voci in un settore che vede l’Italia agli ultimi posti come spesa sanitaria investita, come mostrato da una recente indagine dell’Ocse. E negli ultimi anni, la spesa è scesa ulteriormente, arrivando addirittura sotto il 3 per cento di spesa del fondo sanitario complessivo (in Francia è il 15 per cento, in Germania l’11 per cento). Ben al di sotto di quanto indicato dalla Lancet Commission sulla Salute mentale globale e lo Sviluppo sostenibile, che indica, per i paesi ad alto reddito, una spesa di almeno il 10 per cento del bilancio sanitario.
Tuttavia, sarebbe un errore leggere questa emergenza come una questione solo per psichiatri e psicologi. L’Oms, infatti, definisce la salute mentale come uno stato di completo benessere bio-psico-sociale: è possibile questo stato se tutti i determinanti della nostra salute mentale, bio-psico-sociali, sono in crisi? Essere individualmente sempre più resilienti, senza mai a mettere a tema l’origine sistemica del nostro stare male, è appropriato? O, diversamente, amplifica ulteriormente le diseguaglianze e le disparità sempre più ampie tra chi riesce a ricevere un aiuto e chi no?
Attualmente, in assenza di risorse e prospettive, quella farmacologica è la risposta più comune. E arriva quando ormai il disturbo diventa un’emergenza personale e familiare. Continuare a sedare o a gestire in modo specialistico un malessere connesso a determinanti sociali, economici e ambientali, è appropriato? O stiamo medicalizzando la questione nell’impossibilità pratica di agire dei cambiamenti strutturali della nostra società? E ancora, se la normalità vissuta da tutti cambia in modo drammatico, provare un disagio è veramente segno di un problema ‘solo’ individuale? In altre parole, stare bene in un mondo che sotto molti aspetti va a rotoli è davvero un segno di salute mentale?
A 100 anni dalla nascita di Franco Basaglia, riportare l’attenzione sulla salute mentale nella sua complessità e nella sua costitutiva interdisciplinarità appare necessario. Perché la salute mentale è un ambito troppo ampio per essere affrontato solo da una disciplina attraverso approcci specialistici che inevitabilmente riducono la questione ad alcuni aspetti, perdendo una prospettiva globale, centrata sulla persona. Il problema attuale non è il farmaco in sé, ma è che il farmaco sia l’unico strumento possibile. Agiamo sui sintomi, senza stiudiare il contesto in cui originano sintomi, disagi e disturbi.
Basaglia, per affrontare questa complessità, mise tra parentesi la malattia per guardare le persone e i loro contesti di vita in un’impresa collettiva che ha richiesto l’impegno, le competenze e i punti di vista di tutti. Perché per stare bene non bastano gli specialisti, ma servono contesti per coltivare interessi, talenti o gestire incertezze e dilemmi pratici.
D’altra parte, stiamo tutti male in modi simili (i cosiddetti disturbi che accomunano persone molto differenti tra loro), ma ognuno raggiunge la propria salute mentale in modo singolare e unico. Per questo, gli specialisti devono collaborare tra loro per avere uno sguardo d’insieme utile per la salute mentale delle persone, che equivale a dire: per comprendere la loro realtà senza ridurla al proprio, limitato, campo di studi. Come nella "parabola dei tre ciechi". Si racconta che tre ciechi toccarono un elefante, ciascuno percependone una parte diversa: uno toccò una gamba è pensò che fosse un pilastro, l'altro toccò la coda e pensò fosse una corda, l'altro toccò il fianco e immaginò si trattasse di un muro. Nessuno, da solo, comprese com'era fatto l'intero animale. La salute mentale è un po' come quell'elefante: medici, psicologi e sociologi ne vedono aspetti differenti, ma solo unendo le loro prospettive, in un approccio interdisciplinare, si può capire davvero la situazione complessiva, nelle sue contraddizioni, e trovare soluzioni efficaci.
Basaglia, con il suo lavoro a Trieste, ci ha mostrato che cambiando i contesti, anche i disturbi mentali più gravi si esprimono in modo diverso e diventano non solo più comprensibili, ma anche più semplici da affrontare. L’importante è ascoltare la persona, al di là della malattia vissuta. Parlare di salute mentale (e non solo di psicologia o di psichiatria) vuol dire essere consapevoli che il nostro benessere è strettamente connesso a questioni sociali, economiche e culturali più ampie che richiedono l’impegno di tutta la società civile nel suo insieme. L’Oms, che ha fatto propria la lezione di Basaglia, nel recente report globale Transforming mental health for all mette a fuoco la necessità di lavorare sulle determinanti sociali, sui contesti, sulle comunità per prevenire, curare e riabilitare queste condizioni. Ma rimane inascoltata. Considerare i diversi problemi solo come problemi individuali, è una visione miope che invece alimenta questa emergenza senza mai agire sulle origini complesse della crisi.
Perché, come dice l’Oms, salute mentale non è semplice assenza di disturbi, ma capacità di rimanere in equilibrio, sapendo affrontare le avversità. E i nostri disagi mentali, per non diventare disturbi, non hanno "solo" bisogno di assistenza e di supporto specialistico, ma anche di un dialogo aperto e concreto sulle condizioni di vita che affrontiamo nella nostra sfera personale. Oltre lo stigma e i pregiudizi ancora molto diffusi, scopriamo che le nostre piccole o grandi follie, vissute in solitudine, hanno molto da dire su ciò che oggi consideriamo normale nel discorso pubblico. Una lettura aperta e interdisciplinare di questi disagi, ci può aiutare a leggere meglio la realtà che stiamo vivendo. E ci può dare indicazioni preziose su cosa va cambiato. Perché dietro ogni disagio o disturbo mentale c’è una persona e c’è un mondo.
Edgardo Reali è psicologo clinico e psicoterapeuta. Responsabile del progetto psicologiaxtutti.it (Presidente dell’associazione Ipse Lab APS)
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