Una manifestazione per chiedere più interventi del governo contro la diffusione del vaiolo delle scimmie a New York City (Jeenah Moon/Getty Images) 

Il vaiolo delle scimmie rischia di stigmatizzare i gay? Un ragionamento

Manuel Peruzzo

Tra gli oltre 10 mila casi di monkeypox segnalati in Europa, il 99,5 per cento sono maschi omosessuali tra i 31 e i 40 anni. “Ma bisogna stare attenti a parlare di stigma perché poi si evita la prevenzione", dice l'infettivologa Silvia Nozza. Il punto è come responsabilizzare e informare senza colpevolizzare. E poi c'è il tema della scarsità dei vaccini

Il virus del vaiolo delle scimmie si sta trasmettendo da uomo a uomo. Letteralmente. Tra gli oltre 10 mila casi segnalati in Europa, il 99,5 per cento del totale sono maschi, hanno tra i 31 e i 40 anni e sono prevalentemente omosessuali. Il primo problema da affrontare, per questa, per le passate e per le prossime epidemie è come si raggiungono le persone più vulnerabili senza stigmatizzarle?

    
 
Prima che il vaiolo delle scimmie fosse un’emergenza globale (con grande giubilo dei negazionisti che ora avranno un nuovo giocattolo), era un problema principalmente africano. Non lasciatevi ingannare dal nome, è dovuto a scienziati poco creativi che hanno riconosciuto i sintomi tipici del vaiolo in scimmie da laboratorio nel 1958. Il serbatoio animale pare essere nei roditori (tra i sospettati: scoiattoli e topi gambiani). Il primo caso di trasmissione umana è del 1970 in un bambino nella Repubblica del Congo, da lì in poi il virus ha fatto la sua apparizione in Sierra Leone, Liberia, Repubblica Centrafricana, Repubblica del Congo e Nigeria. 

   
 
Proprio in Nigeria nel 2017 c’è stato un grosso focolaio. Adesola Yinka-Ogunleye, epidemiologa del Centre for Disease Control, ha notato che il virus si comportava in modo inusuale. Anzitutto stava comparendo in zone urbane e non più in zone rurali dove i cacciatori si ferivano e contagiavano entrando in contatto con animali infetti. Ma soprattutto i pazienti iniziavano ad avere lesioni genitali, e ciò suggeriva una trasmissione sessuale. Mancano certezze: i tempi della scienza non sono mai stati tanto veloci come adesso, ma ancora non possono fare miracoli.

     
 
Un recente studio pubblicato sul New England Journal of Medicine, che ha coinvolto anche l’Italia, conferma: “Il 98 per cento delle persone con l’infezione erano uomini gay o bisessuali, il 75 per cento erano bianchi e il 41 per cento aveva un'infezione da virus dell'immunodeficienza umana. Si sospetta che la trasmissione sia avvenuta attraverso l'attività sessuale nel 95 per cento dei casi”. Una percentuale sorprendentemente alta per essere equivocata. 

  
 
Silvia Nozza, infettivologa del San Raffaele e co-curatrice dello studio, alla domanda di Giancarlo Loquenzi su quale fosse il rischio di stigmatizzare gli omossessuali, ha risposto: “Bisogna stare attenti a parlare di stigma perché poi si evita la prevenzione. Bisogna invece avvisare gli uomini che fanno sesso con gli uomini che esiste questa problematica”. Oggi, insomma, a trasmettere il virus non sono più i cani della prateria o i fluidi corporei degli scoiattoli ma gli omosessuali che hanno una vita sessuale attiva. Scomoda verità già trapelata in maggio dagli studi del dottor David Heymann, un consulente dell'Oms che indicava l’origine dei focolai epidemici in due eventi gay in Belgio e Spagna.

 
   
L’associazione tra “Africa, scimmie e gay” non è delle più felici, ma non siamo di fronte a una nuova HIV
. Anche senza medicine dedicate, il tasso di mortalità da monkeypox è molto basso, ci si cura con anti-infiammatori e paracetamolo e generalmente si guarisce entro qualche settimana. Dobbiamo ricordarci che “Le malattie infettive non conoscono confini”, come ha detto il direttore per la sicurezza sanitaria globale alla Casa Bianca, Raj Panjabi. Di nessun genere: etnico, sessuale o topografico. Parliamo di un virus a genoma a Dna, non di un virus gay. Accettate le dovute premesse, se nel tentativo di nascondere la trasmissione sessuale sosteniamo che per contagiarsi basti condividere la stessa maniglia della porta al lavoro o la stessa stanza di casa, la conseguenza è una possibile discriminazione del collega, dell'amico, del figlio con le lesioni in faccia. 

   
 
Serve maggiore attenzione ma non allarmismo. Eruzioni cutanee, febbre, linfonodi ingrossati sono alcuni dei principali sintomi curabili con paracetamolo, antinfiammatori e antidolorifici. Donne incinte, bambini piccoli e persone immunocompromesse tendono a sviluppare sintomi più seri. Le complicanze, più rare, includono polmonite, encefalite, e infezioni batteriche secondarie. In alcuni casi, come quando le lesioni ulcerose sono interne ai genitali, sono molto dolorose (in questo caso si somministrano antivirali per uso compassionevole). Molto probabilmente la gravità dei sintomi dipende dalla carica virale del portatore, dal sistema immunitario del ricevente, e dal tipo di contatto. Ci sono casi con zero lesioni, casi con decine di lesioni e casi con centinaia di lesioni sul corpo. Con lesione si intende un’ulcera o vescicola cutanea. Può sembrare un brufolo ma in realtà non lo è, e lo scoprireste se vi venisse la malaugurata idea di grattarlo.

     
Qualcuno avanza l’ipotesi che gli omosessuali siano le persone più testate e quindi è normale che si trovi il virus solo dove lo cerchi. È plausibile una sottostima (il tampone PCR si può fare solo se uno si accorge delle lesioni e va in ospedale). Ma se fosse vera questa ipotesi significherebbe che a essere discriminate sarebbero le donne (totalmente assenti dalle ospedalizzazioni e dal testing) e non certo i maschi omosessuali che ricevono le rare dosi di vaccino di terza generazione per il vaiolo (lo produce la Bavarian Nordic, si chiama Imvanex ed è stato esteso da Fda e Ema anche per il vaiolo delle scimmie perché i dati sono promettenti). Mentre i gay  godono del vantaggio di appartenere a un gruppo sociale più vulnerabile, le donne soffrono in silenzio o vengono ignorate dai medici?

  
 
O forse, ipotesi che piacerebbe a Occam, le donne non usano social app per incontri, non frequentano saune e cruising, non si rotolano tra le dune di Maspalomas dopo festival gay con la stessa frequenza con cui lo fanno gli uomini e, soprattutto, non condividono le reti sociali e sessuali di MSM (formula linguistica annacquata nata negli Stati Uniti per non dire gay). Diventa sempre più complicato: come responsabilizzare e informare senza allo stesso tempo colpevolizzare?

   
 
Alcuni temono più lo stigma della malattia. Tutti amano ripetere che non è il gruppo sociale a rischio ma i comportamenti sessuali a esserlo. Giusto. Il grande non detto è che tra gli MSM le cose siano spesso indistinguibili. A Madrid il governo ha chiuso una sauna da cui partiva il focolaio, a New York si sospendono feste e party sessuali, a Berlino alcuni party mettono furi uso le dark room, o tentano di farlo, come la serata Cocktail D’amore che ha messo le lampadine per illuminare le stanze: lampadine che sono subito state frantumate.
   
Ci si lamenta per l’uso delle immagini di pazienti africani per mostrare i sintomi (la pelle nera può creare una falsa percezione di sicurezza nei bianchi), per la narrazione di una connessione tra gay e malattia (può creare una falsa percezione di sicurezza negli eterosessuali), per il nome stesso “vaiolo delle scimmie”, che secondo alcuni sarebbe discriminatorio (nessuno vuole essere associato a questo virus, neppure le scimmie). È vero, abbiamo conosciuto recentemente i rischi dovuti alla connotazione di un virus col luogo in cui scoppia l’epidemia (ottenendo sinofobia, violenza e fiacca empatia sui ravioli). Ma questa non è l’occasione per dimostrare di poter ragionare in modo adulto e razionale, di soppesare gli effetti dello stigma sulla popolazione e gli effetti positivi nella campagna di prevenzione? 
    
Ci sarà sempre un conservatore che guardando uomini in fila per un vaccino twitterà che sono lì per poter fare le orge indisturbati. Pazienza. Anche se fosse non sarebbe un valido motivo per non proteggersi con una tecnologia medica disponibile. Il vero problema è che il sottosegretario Costa prometteva 5 milioni di dosi e invece in Italia ne sono arrivate 5.000. E mentre Act Up – l'organizzazione internazionale impegnata a richiamare l'attenzione sulle vite dei malati di AIDS – negli Stati Uniti chiede e ottiene più test e più vaccini, le associazioni italiane mettono la testa sotto la sabbia (a che altro serve la lobby gay?). Senza vaccini non freneremo il contagio. Forse ha ragione Adesola Yinka-Ogunleye quando dice “Il mondo sta pagando il prezzo per non aver risposto adeguatamente” a un problema che era risolvibile. Almeno finché riguardava solo gli africani e gli omosessuali. Forse ora che riguarda tutti ce ne occuperemo più efficacemente.

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