(Ansa)

Cattivi scienziati

Un vaccino contro tutte le varianti grazie a un nuovo anticorpo monoclonale

Enrico Bucci

Non solo monoterapia. Un recente studio pubblicato su Science Transalation Medicine apre la strada a una nuova generazione di farmaci contro il Covid, su cui i ricercatori sono già a lavoro: sieri più efficaci e in grado di rispondere alle mutazioni del virus 

Gli anticorpi monoclonali contro il virus SARS-CoV-2, fino a questo momento, hanno trovato limitata applicazione, sia per problemi pratici, sia per problemi legati alla poca efficacia e alla selezione di varianti da parte di alcuni di essi utilizzati in monoterapia. Naturalmente, questo non significa affatto che tale classe di farmaci sia destinata al fallimento, specie se si considera che, sin qui, si tratta ancora di prodotti di prima generazione, i quali peraltro hanno già un impiego dimostrato e utile nei soggetti che non sono in grado di montare autonomamente una risposta immune.

Tuttavia, qui vorrei discutere di un altro tipo di utilizzo cui la ricerca di anticorpi monoclonali può portare, un utilizzo che forse potrebbe sorprendere qualcuno: lo sviluppo di vaccini più efficaci. Per illustrare il punto, utilizzerò una recentissima pubblicazione di un lavoro su Science Translational Medicine, ove si riporta l’isolamento di un nuovo anticorpo monoclonale – denominato per ora DH1047 – che ha dimostrato una interessantissima proprietà. Questo anticorpo è in grado di neutralizzare in vitro e in vivo (in topo) una moltitudine di coronavirus diversi: quelli di pipistrello WIV-1, RsSHC014, e le varianti di SARS-CoV-2 denominate D614G, B.1.1.7, B.1.351, P.1, B.1.429, B.1.526, B.1.617.1, e B.1.617.2 (in sostanza tutte le varianti più pericolose e diffuse).

 

L’anticorpo in questione lega, come al solito, il dominio RBD della proteina Spike, cioè quel pezzetto del virus che media l’aggancio della proteina umana ACE-2 e di conseguenza serve al virus ad iniziare l’entrata nelle cellule da infettare; ma la sua capacità di bloccare coronavirus di così tanti diversi tipi, già di per sé, indica che la particolare porzione del domino RBD riconosciuta deve essere conservata in tutti i coronavirus provati. Deve, cioè, essere una regione che per la sua importanza cambia di poco, ed in particolare mantiene grossomodo la stessa forma tridimensionale, cosicchè il nuovo anticorpo vi si adatta sempre allo stesso modo, come una chiave in una serratura, mascherandola e impedendo l’interazione con ACE-2 indipendentemente da quale sia il particolare virus bersagliato.

La cosa è più di un’ipotesi, perché i ricercatori del lavoro citato hanno precisamente isolato il pezzettino della proteina Spike cui si lega l’anticorpo – vale a dire lo specifico antigene che il nuovo monoclonale è in grado di riconoscere – ed effettivamente esso risulta molto conservato fra i sarbecovirus, il gruppo di coronavirus di tipo beta cui appartiene anche SARS-CoV-2. Ora, si potrebbe pensare che già questo sia un risultato interessante dal punto di vista farmacologico, e di fatto lo è; ma, per quanto possiamo sperare negli anticorpi monoclonali, nel caso specifico siamo ancora lontani da un’applicazione clinica, e in mezzo vi sono diversi scogli da superare. Come insegnano alcuni dei primi monoclonali sviluppati, un prodotto di questo tipo può fallire per molti motivi, ed infine, anche quando è efficace, non è indicato per una terapia di massa, visti i costi; eppure, vi è un’applicazione che è stata già ventilata che è davvero interessante.

 

Se, infatti, si è identificata una porzione di Spike così conservata fra i diversi coronavirus, la quale è indispensabile per l’ingresso del virus in cellula ed il cui blocco in vivo ha dimostrato valore farmacologico, allora si può fare di più che sviluppare un nuovo anticorpo monoclonale: si può prendere questo pezzetto della proteina Spike e utilizzarlo per farne un nuovo vaccino. Un vaccino che, se le cose andassero bene, funzionerebbe contro tutte le attuali varianti e avrebbe buone probabilità di essere efficace anche contro molte delle future – perché diretto contro qualcosa che è indispensabile per la biologia del virus e quindi può difficilmente mutare, senza perdere funzione. Ecco perché, sulla scorta di studi come questo, i vaccini di generazione sono già in sviluppo; ed ecco perché, in generale, la ricerca sugli anticorpi monoclonali può tornare davvero utile e riservare interessanti sorprese, al di là degli esiti clinici degli stessi monoclonali.

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