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Cattivi scienziati

Quelli che "il virus è clinicamente sparito"

Enrico Bucci

Il cauto ottimismo e la necessità di ripartire non significano chiudere gli occhi davanti ai 40 mila casi ancora attivi e al centinaio di morti ogni giorno. E sulla riapertura delle regioni, forse era meglio una scelta differenziata

Il virus è clinicamente scomparso, secondo qualcuno. Io non so cosa significhi di preciso questa frase: immagino ci si riferisca al fatto che, negli ospedali, non ci sono più i problemi che si sono avuti all’inizio di aprile. Perché, per il resto, continuiamo ad avere circa 100 morti al giorno e oltre 40.000 casi attivi – sapendo che questi ultimi sono certamente di più, visto che come è noto i casi diagnosticati rappresentano una sottostima di quelli reali.

 

Io ho l’impressione che, in realtà, si voglia fare sparire il virus dall’orizzonte cognitivo degli italiani – e con esso gli sbagli commessi, le varie decine di migliaia di morti, e anche gli inviti alla prudenza che sarebbe indicata, visto che il virus è ancora tra noi.

 

Chiariamoci subito: io sono un sostenitore della riapertura, per la semplice ragione che non è possibile rimanere chiusi ancora, senza però nascondere il fatto che siamo al punto in cui siamo solo perché abbiamo fatto un notevole sforzo, e senza pretendere che tutto sia magicamente scomparso. Il virus circola sempre meno, ma non sappiamo precisamente di quanto, perché non abbiamo i mezzi per saperlo; e possiamo certamente, con la giusta serenità, ritornare a muoverci e a far girare le nostre attività economiche, ma siccome non siamo un popolo di imbecilli o di bambini, dobbiamo semplicemente comportarci con un misurato ottimismo e ricorrere a tutti quei comportamenti minimi che servano a diminuire le occasioni di contagio da parte di uno delle decine di migliaia di soggetti che non sappiamo nemmeno dove siano e che sono ancora “casi attivi”.

 

In più, faccio fatica a capire per quale motivo si debbano considerare alla stessa stregua territori con decine di migliaia di infezioni in corso, come la Lombardia, e territori come l’Umbria o il Molise: perché non si può applicare una politica differenziata per questi territori, ritardando ove sembra necessario la circolazione extraregionale ancora per un po’?

 

Non è che si chiede poi molto: l’Italia è senza dubbio disposta ad aiutare le regioni più colpite, ma perché invece bisogna fare finta che siano ormai come le altre, quando la realtà dei fatti dimostra che non è così?

 

La Cina ha tenuto chiuso lo Hubei (e ha poi chiuso altri territori) finché i casi non sono tornati allo stesso livello del resto del paese; noi non siamo la Cina, né si chiede a nessuno di resistere oltre; però, limitare la circolazione in uscita e in entrata dalla Lombardia è così difficile e insostenibile? E non era esattamente quello il senso dei 21 indicatori del ministero della Sanità, dei quali vorremo avere contezza, per sapere quanti e quali sono rispettati dalle regioni ove ancora sono presenti migliaia di cittadini infetti?

 

Insomma: come sempre, dovremmo agire con calma e razionalità, ma sembra che, alla fine, la comunicazione emotiva – per un verso o per l’altro – sia l’unica cosa che interessa, perché in grado di garantire meglio il consenso, scommettendo sulla nostra fortuna.

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