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Roma Capoccia
Nel documentario “San Damiano”, la stazione Termini si fa altare e abisso
Quello di Gregorio Sassoli e Alejandro Cifuentes è uno sguardo non banale su voci, odori e vite alla deriva che si abbracciano nello stesso non-luogo. Ci immergiamo nel degrado, ma ne usciamo più consapevoli
“Un folle è prima di tutto un individuo a cui la società ha impedito di esprimere delle insopportabili verità”, e Antonin Artaud conosceva bene il peso della follia e quanto essa, nella sua drammatica istituzionalizzazione, comportasse la scomparsa dal reale dei suoi protagonisti. “San Damiano”, documentario di Gregorio Sassoli e Alejandro Cifuentes, è uno sguardo non banale, in quanto non romanticizzato, su voci, odori, accelerazione di vite alla deriva che si abbracciano nello stesso non-luogo, la stazione Termini, tra cataste di abiti marciti e di esistenze ricolme di alcolici, disagio psichico e di droga. Riccardo Carlino, sulle pagine di questo stesso giornale, ha ricordato come nell’epoca della riproducibilità social delle miserie di strada, il rischio di un’operazione come questa fosse quello di veder avvolgere il tutto nel sudario del sensazionalismo. Per “San Damiano”, che dai primi di aprile è in tour per i cinema di diverse città italiane, divenuto un fenomeno positivamente extra-romano a testimoniare l’universalità di certe tematiche, valgono naturalmente le medesime considerazioni che già negli anni Settanta e Ottanta vennero snocciolate su questo genere di approccio documentaristico: quale è il confine che separa tra loro testimonianza e narcisismo, sguardo oggettivo e sfruttamento dell’immagine e del disagio? Interrogativi legittimi, e in certa misura potenziati e ricontestualizzati nell’epoca della riproducibilità social del degrado, ma che si sciolgono nelle immagini e nei frame e nelle parole, sovente sconnesse ma sempre sagge e perfino commoventi di questi testimoni di un tempo perduto.
Non c’è patetico compiacimento nelle sequenze di “San Damiano”, né quella compassione plasticamente umanitaria che di questi tempi si è fatta marketing o peggio ancora ha evocato tragedie vendute come prodotto, perché come ha scritto Nicolás Gómez Dávila “il culto dell’umanità si celebra con sacrifici umani”. E se Damian, il protagonista, è una figura complessa, ricca, che dialoga a modo suo con Dio, in quel borborigmo caotico strutturato già da Artaud in “Per farla finita con il giudizio di Dio”, novello nobile in un rudere delle mura Aureliane, la problematicità della operazione si sdilinquisce e si risolve nel suo essere figlia privilegiata di un filone documentaristico tipicamente romano. Laddove Roma assume le sembianze magnetiche di una metafora assoluta della condizione umana, di una universalità impenitente. Damian, eletto alla santità e al martirio del voler resistere senza piegarsi alla regola demonica dell’abisso che contraddistingue la vita di strada, ci fa da guida nel sottomondo chiamato “stazione Termini”, tra fantasmi e biografie snocciolate a favore di videocamera, come già decenni prima altre figure scarmigliate e macilente ci avevano indicato la strada.
Il riferimento è ad “Anna”, uscito nel 1975 e girato nel 1972 in presa diretta da Alberto Grifi e Massimo Sarchielli, tragica storia di una giovanissima tossicodipendente, minorenne e incinta di otto mesi, seguita nella sua vita quotidiana, anche intima e affettiva, da Sarchielli che dopo averla incontrata vagolante per piazza Navona la prende a vivere con sé. Ma anche al più celebre “L’imperatore di Roma”, di Nico D’Alessandria e considerato, con ogni buonissima ragione, un capolavoro e in cui al posto di Damian troviamo la carnale sagoma di Gerardo “Jerry” Sperandini. Già per quelle opere si erano sollevati il canto indignato di chi paventa exploitation e il moralismo di chi critica ma preferisce continuare a tenere chino lo sguardo o fare poesia sull’umanità, in assenza di poesia e soprattutto di umanità. “San Damiano”, come “Anna” e come “L’imperatore di Roma”, è la sublimazione di un essere negato, ben lontana da quei motivi obliqui e viscerali che ci portano sovente a immolarci alla visione di frammenti degradanti alle latitudini di TikTok o di Instagram: ti costringe, nella potente e rituale rudimentalità del cinema, così diversa dal flusso ininterrotto e vomitato del digitale, a immergerti in quel Gange metafisico del degrado, chiamato stazione Termini, e a uscirne non purificato né peggiore, ma consapevole. Consapevole di aver adocchiato una realtà altra, una piega, una nicchia, una ferita psico-geografica. Non uno spettacolo.