Nathaniel Hawthorne - foto via Getty Images

Roma Capoccia

Di spettri, di satiri e di scimmie: la Roma di Nathaniel Hawthorne

Andrea Venanzoni

Il viaggio dello scrittore statunitense nella città eterna: una città malevola, incupita, gotica nei suoi tratti sotterranei intessuti di labirintiche e ossute cripte, di chiaroscuri spettrali, di vicoli negletti su cui il sole sembra non brillare mai

In una fredda mezzanotte, Nathaniel Hawthorne fece il suo ingresso a Roma. Era il gennaio del 1858. Da pochi mesi terminato il suo incarico di console americano a Liverpool, lo scrittore, assieme alla famiglia, si era imbarcato in un esteso viaggio europeo che lo vide prima in Francia e poi in Italia. Sovrastato da una falce di luna madreperlacea e da un vento glaciale, come i suoi predecessori nel viaggio romano anche Hawthorne varcò la soglia di ingresso capitolina da Porta del Popolo. L’oscurità, però, lo privò del colpo d’occhio maestoso e deprimente al tempo stesso. E questo secondo aspetto, quello di una città arruffata, col muso sozzo di fanghiglia e di polvere, rumorosa, vociante, sciatta, pur punteggiata magnificamente di grandiosità storica e artistica, colpirà profondamente lo scrittore americano. Annota infatti nel suo Diario, “non sarò mai in grado di esprimere la mia avversione per questo posto, la condizione miserabile in cui mi sono trovato; e presto, immagino, un clima più caldo forse mi riconcilierà con Roma contro la mia volontà. Freddi vicoli angusti, tra case alte, brutte, incalcinate, pane rancido, pavimentazioni scomode; mendicanti, borsaioli, templi antichi e monumenti in frantumi, e fra le loro estensioni penzolante biancheria stesa ad asciugarsi; soldati francesi, monaci e preti di ogni grado; un popolino trasandato, sigari cattivi’”.
 

Una Roma malevola, incupita, gotica nei suoi tratti sotterranei intessuti di labirintiche e ossute cripte, di chiaroscuri spettrali, di vicoli negletti su cui il sole sembra non brillare mai. Hawthorne visita le principali gallerie d’arte, le ville urbane, prende appunti, si bea delle leggende metropolitane e delle storie cupe trasmesse oralmente nelle bettole e da ciarliere matrone ferme ai crocicchi. Preda di uno sdilinquimento temporale, al centro di uno spazio che appare come virtuale, nebbia metafisica senza epoca, in cui il tempo si affastella, gli stili e i periodi storici si segmentano e si sovrappongono quasi geologicamente, lo scrittore rivela la difficoltà percettiva, soprattutto per un americano, di venire a patti con la coesistenza, nello stesso luogo, nello stesso spazio, di millenni di cultura, storia, architettura, sapienza.
 

Una città, orrenda nella sua morfologia urbanistica, sporca e popolata da una umanità alla deriva, essa stessa in apparenza incurante di vivere al centro di un monumento eterno e simbolicamente potentissimo, capace di soggiogare e disgustare al tempo stesso. Forte è il ricordo serbato da Hawthorne della Sala dei Cesari, ai Musei Capitolini, di cui ci viene lasciata una dettagliata descrizione, in cui il puritanesimo morale e cupo dello scrittore si fonde a considerazioni sul rapporto tra estetica, arte e carattere di una civiltà declinante.  Sarà durante la sua seconda visita ai Musei Capitolini, nell’aprile del 1858, che Hawthorne si imbatterà nella statua Il Satiro in riposo, di Prassitele. Ne rimarrà sconvolto e quella vista gli concilierà uno dei suoi romanzi più celebri, “Il fauno di marmo”, pubblicato nel 1860 e che rappresenta a tutti gli effetti, per trama, psicologia dei personaggi, ambientazione, un gotico romano.
 

Nel romanzo, lo scrittore condensa non solo le sue visite, le sue impressioni, le sue sensazioni ma anche le leggende nere ed esoteriche della Città Eterna. Come il mito della Torre della Scimmia, situata tra via dei Portoghesi e via dei Pianellari, nel rione Campo Marzio; qui sorge, incastonata in un complesso residenziale medievale, una torretta di quattro piani alla cui sommità svetta una statua della Madonna perennemente illuminata da una lampada. Leggenda vuole che qui vivesse una scimmia, di nome Hilda, insolito animale domestico della famiglia Frangipane. Un giorno, a causa di una distrazione del padre e della madre, la scimmietta prese con sé il neonato che da pochi giorni aveva allietato con la sua nascita la casa e lo portò in cima alla torre.  Disperati, i Frangipane pregarono la Madonna e fecero voto che se la scimmia avesse reso sano e salvo il bebè avrebbero eretto una statua mariana con al suo fianco una luce sempre accesa. La statua, quella Madonna con in grembo un neonato, è testimonianza che la storia fu a lieto fine.

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