Charles Dickens - foto Getty Images

Roma Capoccia

Così Dickens scoprì la brutalità della morte tra le rive del Tevere

Andrea Venanzoni

Lo scrittore inglese giunse nella Città eterna nel gennaio del 1845. Di quel viaggio resta un intenso racconto che, oltre a parlare delle bellezze della città, conserva una riflessione sulle condizioni sociali, sul clero, sulla vita brulicante nelle strade

Due cose attrassero l’attenzione di Charles Dickens a Roma: i cupi reticoli architettonici irradiati sotto la superficie della città e la morte. Lo scrittore inglese, seguendo la consuetudine del Grand Tour, radicata nella mente dei letterati nord-europei e britannici per cogliere ispirazione nel florido panorama storico e artistico italiano, giunse nella Città eterna nel gennaio del 1845. Aveva solo trentadue anni e trentatré li avrebbe compiuti proprio durante il soggiorno capitolino. Entrò in città da Porta del Popolo, abbagliato dallo splendore architettonico e pure dal contrasto tra grandezza e miseria che pervadeva ogni singolo angolo della città.
 

Di quel viaggio ci ha lasciato un intenso racconto, "Impressioni di Roma" (edito in Italia da Intra Moenia). Naturalmente Dickens non manca di ossequiare la notarile tradizione della osservazione e della descrizione delle opere d’arte, delle Chiese e ci lascia affreschi splendidi delle strade, dei monumenti, delle rovine. Ma Dickens è Dickens e la sua narrazione migliore, più arguta, originale, emerge quando il suo sguardo si appunta sulle condizioni sociali, sul clero, sulla vita brulicante nelle strade. Anche permanendo nello spazio della descrizione di opere architettoniche, Dickens va alla radice oscura, tratteggiando ombrosa metafora della condizione umana: la sua descrizione delle viscere della piazza dei SS. Giovanni e Paolo, su cui era stato eretto il tempio di Claudio, non sfigurerebbe tra le pagine di Lovecraft o di Poe. “Si tratta di vastissime cavità immerse in una terrificante oscurità, semisepolte nella terra e impraticabili, nelle quali le fievoli torce agitate dalle guide lasciano intravedere lunghe file di volte lontane”.
 

Di un’altra oscurità però Dickens fu testimone e si tratta senza dubbio alcuno delle pagine più interessanti, attuali e per certi versi sconvolgenti. Durante i mesi della sua permanenza a Roma, lo scrittore inglese assiste a una esecuzione: una decapitazione portata a termine da Mastro Titta che da Castel Sant’Angelo, annota Dickens, attraversa il Tevere per celebrare quel macabro rito di morte. L’intera vicenda colpisce molto l’immaginario dickensiano e smuove una riflessione garantistica e inorridita non solo al pensiero della pena di morte, di questo boia che mette piede sul suolo romano varcando le soglie della sicurezza della fortezza solo per uccidere, e di quella festa crudele di sangue sotto gli occhi atterriti ed eccitati del popolino, ma per la condizione dello stesso condannato che era rimasto nella sua umida cella per oltre dieci mesi.
 

È l’otto marzo del 1845 e il ghigliottinato si chiama Giovanni Vagnarelli. Di origini umbre ma residente nel viterbese, aveva molti mesi prima rapinato e ucciso una nobildonna bavarese, Anna Kotja, che stava discendendo a Roma in veste di pellegrina. Non conoscendo la strada per la Città, la donna si era affidata all’apparentemente gentile e disponibile Vagnarelli che poi però, tempo dopo, in una zona appartata, nella zona della Tomba di Nerone, la avrebbe aggredita e uccisa.
 

Dickens profonde la sua descrizione sul contrasto tra i paramenti sacri e funebri che adornano il patibolo, i monaci incappucciati, l’effigie di Cristo bardata a lutto disposta di modo che il condannato la avrebbe fissata fino all’ultimo sguardo, e la burocratica consistenza di una giustizia che pur amministrata nel nome della religione si veste di spietata crudeltà. Descrive il Vagnarelli da vivo, giovane di circa ventisei anni, robusto, alto, con piccoli baffetti e colorito pallido, scalzo ritto sul patibolo a poca distanza dalla ghigliottina.
 

E lo descrive poi da morto, con la testa issata su un palo, livida, cinerea, gli occhi rivolti in alto a fissare l’insensatezza di quella morte. L’orrore della scena, macabro carnevale di sangue e di rituali ampollosi, come il mostrare la testa mozzata ai quattro punti cardinali, fanno scrivere a Dickens, “il boia: un fuorilegge ex officio (quale ironia sulla Giustizia!) che per la vita non osa traversare il Ponte di S. Angelo se non per svolgere il proprio lavoro: si ritirò nella sua tana, e lo spettacolo poté dirsi concluso”.

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