Pier Paolo Pasolini - Ansa

ROMA CAPOCCIA

Flânerie decadente nei luoghi di Pasolini, morto a novembre

Andrea Venanzoni

Dal Golgota fangoso di Ostia lido a via di Panico fino alle vallate disossate di borgata: una Roma matrigna

Prima rugginose, poi ellittiche come carillon di sangue e di mare, le note di “Ostia (The Death of Pasolini)” dei Coil sottolineano quell’esatto punto geometricamente disintegrato in un nulla verde e ocra, fangoso, oggi sormontato da un monumento inestricabile, cinto da erbetta e canneti, umidicci, dove quarantotto anni fa venne rinvenuto il cadavere di Pier Paolo Pasolini. L’area, tutto intorno, Golgota lumpenproletariat allora e ancora oggi, il cielo livido, a picco tra i flutti sporchi che si infrangono contro scogli e pattini spezzati. Come in un volteggio dantesco, il suo stesso carnefice, dopo l’ultima cena all’Ostiense e poi quel viaggio, fari a fendere la via verso Ostia, in un eros divenuto morte in simmetria alla Bataille che rende ogni piacere consacrato alla carne formula di decomposizione, è stato incatenato dalla burocrazia post-carceraria ad accudire giardini, con la cooperativa di Buzzi, ed è finito a sfalciare erba pure in quel parchetto votato alla memoria del poeta.

E se vivere è davvero tremare, come ammoniva Pasolini, ci si immagina quella Roma sinuosa, fantasmatica, anodina, ingrigita, sola, chiusa in se stessa, la Roma dei ragazzi di vita aperti a ventaglio tra Valle Giulia e piazza dei Cinquecento, lungo la dorsale spossata delle borgate, la Roma intristita delle serate mondane in cui si consumava una solitudine così forte, così lancinante, da togliere il fiato, in cui perdersi senza mai ritrovarsi davanti la nudità cosmogonica di una città eterna nella sua sofferenza. Più che Dario Bellezza, nella sua psichedelica disperazione vigile e attorcigliata attorno un Uroboro primordiale, che nelle carni straziate vedeva il deliquio poetico di una non-esistenza condannata dai pregiudizi della società, è stato Giovanni Testori a indagare e scandagliare speleologicamente quel senso immane di deriva, di perdita, di tristezza, così cupa da essersi fatta ontologia di marmo e di ombra, moto viscerale che risalendo dal cuore d’inferno cerca, ha scritto Testori, di ricomporre quell’unità lacerata e perduta.

La Roma di Pasolini è una Roma con il volto sozzo di fanghiglia e polvere, una Roma in cui tutti gli angoli, tutti i crocicchi, tutte le sagome di statua o di Chiesa o di rovina, si ingolfano pensosi socchiudendo petali di una promessa di redenzione. Via di Panico, un tempo fetida, e poi giù al Pigneto, e nelle vallate disossate del proletariato urbano, le borgate, le casette squadrate, i ragazzini, i soldi, l’esposizione del proprio corpo come osceno desiderio di consistere di una muta richiesta di comprensione. Una Roma mai madre, altro che Mamma Roma, una Roma sonnacchiosa ma crudelissima, la Roma delle fogne e di Eliogabalo, di esistenze infrante e notti raminghe, di ondivaghe perdite di senso, bar, ristoranti, quartieri, quadranti, polvere, stelle annerite, sotto la cui volta incurvata essere sempre soli.

L’arrivo stesso a Roma era stato infelice. In quei versi, in ricordo dell’approdo a Termini, Pasolini si dichiarò impossibilitato a guarire da quel male, che era il male del disonore, della miseria, della madre costretta a fare la serva. La Roma di Pasolini è una Roma di reti e amicizie, e di odori, afrori pungenti, colorati, esangui a volte, che lo cinge in delicata contemplazione, ora più brutale, sbrigativa, tra i primi annerimenti del cielo, nella morte del tramonto. I lumi arancio che sfarfallano per via, e la sua ricerca di un posto nel mondo, consapevole della sua arte ma al tempo stesso frammentato, incrinato nel vetro della sua essenza. È una Roma che come olio nero gronda nella sua poetica, nei suoi racconti, nei suoi romanzi, nei suoi film, nella sua esistenza, Matrigna infelice, mai del tutto soddisfatta, immensa, desertica, inconsolabile nella sua solitudine di città museale, dalla storia preziosa ma mai più replicabile. E la solitudine di Roma, il suo posto al di là della storia, della vita, del pensiero, è la solitudine di Pasolini, celebrazione armonica di un abbraccio inevitabile. In quella notte, in quel pozzo oscuro tra il primo e il due di novembre del 1975, l’abbraccio si consumò nel suo fiore più rosso. La carne si sposò al terriccio. Per sempre.

Di più su questi argomenti: