Roma Capoccia

I Beatles, la Carrà e l'Italia che si scoprì libera al Piper Club 

Gianluca Roselli

Un docu-fim racconta il locale che ha segnato la storia di Roma regalandole una seconda "dolce vita" 

Dentro il Piper c’era un’Italia moderna, evoluta, libera sessualmente, connessa col mondo. Fuori invece c’era un’Italia ancora vecchia. Così il giornalista musicale Ernesto Assante descrive il locale di via Tagliamento che ha segnato la storia della città regalandole una seconda “dolce vita”. Perché se l’universo della Via Veneto degli anni Cinquanta fu così ben rappresentato da film di Federico Fellini, il 17 febbraio 1965, giorno d’esordio del Piper Club, è stato l’inizio di un altro momento magico, anni che per intensità possono essere paragonati solo alla Swinging London dei ‘60 o alla New York della Factory di Andy Warhol, negli anni ’80. 


Tutto questo viene raccontato in Piper Generation. Beat, Shake & Pop Art negli anni ‘60, un docu-film realizzato da Corrado Rizza e trasmesso martedì scorso su Rai 5 (ma lo potete rivedere su RaiPlay). E in questi giorni in cui la città si trascina malamente tra incendi, immondizia per strada, cinghiali al pascolo e gabbiani in picchiata, fa bene al cuore vedere che un’altra Roma è, o è stata, possibile. Una Roma dove Alberico Crocetta, Giancarlo Bornigia e Piergaetano Tornielli hanno creduto nel loro sogno di voler aprire un locale “che ricordasse un flipper, ma con le persone al posto delle palline”. 


Il Piper è stato il primo locale per i giovani in questo paese. Prima c’erano solo balere e night club, col Piper ed è cambiato tutto”, spiega Roberto D’Agostino, che all’epoca aveva 16 anni. “La prima volta che ho sceso quelle scale mi si è aperto un mondo di luci, colori, fantasia e divertimento”, ricorda Mita Medici, una delle protagoniste di quelle serate, insieme a Patty Pravo, la “ragazza del Piper”, che nel docu-film non c’è (si sarà sottratta?). Scatta la magia e qui vengono a suonare tutti: l’Equipe 84, i Rokes di Shel Shapiro, Mal e i suoi Primitives, I Corvi, I Nomadi, Renato Zero, i Pink Floyd con ancora Roger Waters, gli Who. In anni più recenti, Nirvana e David Bowie. Nel giugno del 1965 i Beatles suonarono al Teatro Adriano, ma per il dopo concerto scelsero il Club 84 a Via Veneto, dove però non c’era nessuno. I Rolling Stones, invece, non sbagliarono e arrivarono in via Tagliamento tra due ali di folla adorante. Ma i vip al Piper non si comportavano da star, si godevano la serata come tutti gli altri. Perché i protagonisti della scena erano le ragazze ye-ye e i loro accompagnatori, tutti fan della musica e della moda beat: minigonna, cinturona e stivali per lei; pantaloni a zampa, stivaletti e ciuffo alla Lennon-McCartney per lui. “Al concerto degli Stones vedemmo Brian Jones in pelliccia. Perché nun lo famo pure noi? Così ci presentammo al Piper con la pelliccia di mamma… Un caldo pazzesco, ma fu un successo”, ricorda D’Agostino. Che rievoca anche un incidente stradale in 500 con Renato Zero. “Ci portarono all’Umberto I e misero Renato al reparto femminile”. Ma il Piper fu anche e soprattutto un luogo d’arte, dove i musicisti e artisti potevano esibirsi e connettersi tra loro. Mario Schifano mise su un gruppo, Le Stelle di Mario Schifano. Warhol e i Velvet Underground arrivarono 15 anni dopo. Nel docu-film parlano anche Tito Schipa jr (presentatore del Piper), Marina Marfoglia (da poco scomparsa), Marcella De Folco (che prima era uomo, stava alla porta, poi divenne donna). E tra i tanti si vedono Arbore, Boncompagni, Mina e Raffaella Carrà. 

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