Preghiera

L'italiano non ha bisogno della resilienza

Camillo Langone

Meno male che c'è ancora chi, come la rivista "Cvilità delle macchine", cerca di usare un italiano concreto e sano, non svuotato dalle parole indotte 

Su “Civiltà delle macchine” leggo la seguente magistrale definizione di “resilienza”: “D’anelito eroico ed esito fatalmente anerotico, annuncia il cauto risentimento di una morale servile. Cosa sia più respingente del rancore di chi si piega ma non si spezza, non è dato saperlo. Chissà quando si potrà inumare questo vessillo lessicale di debolismo e ciance…”. Dunque non sono solo. Non del tutto, almeno. Ci si metta nei miei panni: non avendo mai pronunciato e mai scritto (se non fra virgolette, come citazione) la parola “resilienza” e nemmeno la parola “migrante” e nemmeno la parola “lockdown” e nemmeno la locuzione “fake news”, né tantomeno la parola americana di tre lettere usata al posto di “omosessuale”, fatalmente mi sento un po’ isolato. Va bene che sono antisociale, ma l’esilio interno mi pesa. E mi fa piacere sapere che altri cercano di usare un italiano concreto e sano, non svuotato dalle parole indotte. Prego di vivere abbastanza per vedere la morte anche di “negazionista”, “green economy”, “movida”, ma se posso scegliere di assistere a un solo funerale scelgo quello di “resilienza”, lessicale pestilenza.

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  • Camillo Langone
  • Vive tra Parma e Trani. Scrive sui giornali e pubblica libri: l'ultimo è "La ragazza immortale" (La nave di Teseo).