Ansa
Tra apparenza e convenevoli
Invitami che t'invito. Il modello Atreju è un'anomalia italiana?
Alla festa di Fratelli d'Italia c'è chi va e chi non va, chi tiene banco e chi si presenta senza farsi notare. Il tutto in apparentemente amorevole scambio di convenevoli. Siamo passati dalla delegittimazione al dialogo, o è solo una posa? Parlano Stefano Ceccanti, Giovanni Orsina, Paolo Pombeni
"Invitarsi reciprocamente, invitarsi con cordialità dopo essersi tanto odiati, invitarsi dettando regole gli uni agli altri. E insomma, domani si apre “Atreju”, la festa che non è più soltanto dei giovani di Fratelli d’Italia, ma di tutto il partito governativo: otto giorni di dibattiti, eventi, pattinaggio sul ghiaccio, mercatini e cotillon. C’è chi va (mezzo governo e mezza opposizione), chi non va (la segretaria del Pd Elly Schlein), chi tiene banco e chi si presenta senza farsi notare; il tutto in apparentemente amorevole scambio di convenevoli, con i luogotenenti di Giorgia Meloni che ringraziano i leader dei partiti di minoranza. Vista da fuori, cioè dagli altri paesi europei e anche dall’America, come fanno notare alcuni cronisti anglosassoni, il panorama appare insolito, specie per chi ha rapporti codificati tra maggioranza e opposizione (vedi il governo ombra), ma non ci pensa proprio a scambiarsi inviti alle proprie iniziative.
E dunque – mentre i Fratelli d’Italia attendono, nei prossimi giorni, a Castel Sant’Angelo, tra gli altri, Giuseppe Conte, Angelo Bonelli, Carlo Calenda, Matteo Renzi, Antonio Decaro e i sindaci di centrosinistra Roberto Gualtieri e Gaetano Manfredi, al grido di “evento di parte ma non di partito” – ci si domanda a che cosa sia dovuta questa anomalia italiana, e se sia un segnale di maturità o, al contrario, una posa. “Direi che si tratta non tanto di anomalia, quanto di schizofrenia italiana”, dice Stefano Ceccanti, docente di Diritto Pubblico comparato ed ex deputato dem: “Nel nostro paese si passa tranquillamente dalla demonizzazione reciproca all’inciucio; ci si rifiuta magari di fare riforme condivise per poi accettare di sedere insieme in un governo tecnico. Si contesta la legittimità a governare di questo o di quello, ma non si disdegna la partecipazione all’altrui festa di partito”. Perché? “Non siamo abituati, a differenza di altri paesi”, dice Ceccanti, “a una vera alternanza di governo. Abbiamo a lungo vissuto in un quadro di compressione al centro, con esclusione delle estreme, o alle crisi per così dire di regime, e questo ci ha lasciato in eredità la tendenza alle suddette oscillazioni schizofreniche”. Con la discesa in campo di Silvio Berlusconi, nel 1994, sì è però inaugurata una stagione di alternanza. “Ma in un quadro di delegittimazione dell’avversario”. Infine si è arrivati al governo Monti. “Siamo anomali anche in questo: invece di fare vere grandi coalizioni”, dice Ceccanti, “le facciamo mascherandole da governi tecnici”.
Per il politologo Giovanni Orsina, docente di Storia contemporanea e direttore della School of Goverment della Luiss, la nostra attitudine all’invito reciproco, magari dopo l’insulto, ha ragioni che affondano “nell’importanza che, nella nostra storia, hanno rivestito partiti che, in qualche modo, hanno assorbito una radice totalitaria, come l’Msi e il Pci. Partiti che poi si sono evoluti, ed ecco che l’attitudine da partito unico si è mitigata attraverso l’apparente disponibilità al dialogo. Ma spesso è appunto solo apparenza”. Orsina sottolinea un altro aspetto: “La delegittimazione pubblica”, dice, “spesso nasconde la contiguità privata. Mi viene in mente un episodio della serie di Padre Brown, personaggio nato dalla penna di Chesterton, in cui si parla di un circolo inglese d’inizio Novecento dove si incontrano élite che in pubblico si insultano e che invece appartengono alla stessa classe sociale”.
Lo storico e politologo Paolo Pombeni, direttore della rivista Il Mulino, ricorda gli anni Sessanta, “quando, tra Dc e Pci, non ci si invitava certo alle feste gli uni degli altri. Anzi: chi ci andava era sospettato di intendenza con il nemico, in un’eterna lotta tra guelfi e ghibellini, a differenza che in Gran Bretagna, dove conservatori e laburisti mantenevano una linea costante di legittimazione reciproca, pur nella diversità”. Oggi però i guelfi e i ghibellini appaiono ammansiti (o mascherati). “Si è a lungo pensato”, dice Pombeni, “che, dialogando con l’avversario, l’elettorato non seguisse. Ma in Parlamento ti devi pur parlare, e si è forse finalmente capito che un sistema politico sano non può reggersi sulla contrapposizione angeli-diavoli”.
l'editoriale dell'elefantino