Ansa
l'editoriale del direttore
La classe dirigente delle regioni è lontana anni luce da quella nazionale: lezioni dal voto
Dalle regionali emerge un tema più importante dei flussi: c'è un'Italia fatta da europeisti, garantisti, pragmatici, anti Nimby, pro concorrenza, pro vaccini, amici del compromesso che gli elettori capiscono al punto da non aver vergogna a votarla anche a oltranza
Forza della ragione o forza delle regioni? Mettete per un attimo da parte il conto dei vinti, dei vincitori, dei flussi, degli equilibri nuovi, di quelli vecchi, e provate per un istante, dopo la lunga tornata delle regionali, a fermarvi per qualche secondo e a osservare un dettaglio importante e trasversale che ci viene consegnato dal voto nelle regioni. Il voto che si è concluso domenica scorsa rappresenta l’onda lunga di un lungo percorso partito nel 2020, quando si andò a votare in otto regioni: Veneto, Emilia-Romagna, Campania, Puglia, Toscana, Liguria, Marche, Calabria. Cinque anni dopo il dato rilevante non riguarda solo la conferma, in tutte queste regioni, dei colori politici precedenti. Ma riguarda una novità sostanziale: la capacità ormai sistematica della classe dirigente delle regioni di rappresentare una classe politica lontana anni luce da quella nazionale, spesso in balìa delle onde populiste e dei venti della demagogia. Fermatevi un istante e pensateci un attimo. In Veneto, ha stravinto il modello di Luca Zaia, ha stravinto il governatore Alberto Stefani e ha stravinto una Lega europeista, pragmatica, non ostile alla globalizzazione, non allarmista sui vaccini, e non ci vuole molto a capire che quel modello di Lega è l’esatto opposto rispetto a quello disegnato negli ultimi anni da Matteo Salvini e Roberto Vannacci, con il loro mondo al contrario. In Puglia, ha stravinto Antonio Decaro, figlioccio di Michele Emiliano, sì, ma non manettaro, non giustizialista, europeista, riformista, figlio di un Pd cresciuto nella stagione renziana. In Campania, ha vinto Roberto Fico, certo, non esattamente un anti populista, ma ha vinto un Movimento 5 stelle che ha fatto del compromesso un suo tratto distintivo, e dove il compromesso trionfa raramente il populismo prospera. In Toscana, lo sappiamo, settimane fa ha vinto un altro riformista, come Eugenio Giani, pro imprese, pro concorrenza, pro termovalorizzatore, anche se con un inciampo sul rigassificatore di Piombino, ma comunque lontano dal modello di Pd a vocazione gruppettara incarnato da Elly Schlein. In Calabria, pochi giorni prima, ha vinto Roberto Occhiuto, uomo forte di Forza Italia, impegnato non solo nella difesa del garantismo ma impegnato anche in una spettacolare difesa del mercato, anche contro il conservatorismo della stessa destra di cui fa parte, e molti di voi ricorderanno la battaglia vinta poche settimane fa alla Corte costituzionale da Occhiuto contro il governo di centrodestra, che voleva limitare con un decreto firmato da Salvini per ingraziarsi i tassisti la possibilità delle regioni di decidere in autonomia se liberalizzare o no il trasporto pubblico locale. Nelle Marche, stessa storia, ha vinto Francesco Acquaroli, un garantista che, come abbiamo già detto, non ha speculato sulle indagini a carico del suo rivale, Matteo Ricci. In Emilia-Romagna, ancora, un anno fa si è affermato Michele De Pascale, per il centrosinistra, garantista puro, ma anche in prima fila contro l’ambientalismo ideologico, contro i nemici dei termovalorizzatori, contro i nemici delle trivellazioni, contro i campioni del Nimby, che popolano diffusamente anche i corridoi del suo stesso partito. In Liguria, in fondo, stessa storia, e la vittoria alle regionali di un anno fa di Marco Bucci, un manager lontano dalla retorica populista, desideroso di puntare più sulle infrastrutture, sull’innovazione e sulla rigenerazione urbana invece che sugli slogan vuoti di alcuni partiti della maggioranza che rappresenta, ha aggiunto un tassello ulteriore a un mosaico che queste regionali non hanno fatto altro che confermare. L’Italia delle regioni è un’Italia responsabile, anti demagogica, europeista, che non bisticcia con le imprese, che detesta il protezionismo, che non disprezza la concorrenza, che non mastica il giustizialismo, che non scommette sull’ideologia ambientalista.
Ed è un’Italia che da anni ai partiti offre dei messaggi più interessanti rispetto ai singoli flussi elettorali: c’è un’altra direzione possibile rispetto all’Italia immobile, timida, demagogica che la politica nazionale spesso accarezza, ed è un’Italia fatta di pragmatismo, di responsabilità, di creatività, di primato della politica che gli elettori capiscono al punto da non aver vergogna a votarla anche a oltranza, per più mandati. Le regionali consegnano ai partiti molti motivi per convincersi del proprio stato di forma, e come spesso capita tutti cercano un modo per dire abbiamo vinto noi e hanno perso gli altri. Quello che però meriterebbe di essere messo a fuoco, dopo le vittorie alle regionali, è anche altro: c’è un’Italia che funziona, nelle regioni, trasversale e di buon senso, e la politica nazionale, su ambiente, infrastrutture, europeismo, pragmatismo, concorrenza, avrebbe qualcosa da imparare più dai governatori che dai partiti che li sostengono. Forza della ragione o forza delle regioni? Scegliete voi.