Foto Superstrada Pedemontana Veneta
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Il monumento dello Zaiastan
Percorrere la Pedemontana per scoprire l’essenza dei quindici anni del Doge trevisan alla guida del Veneto
Di questi tempi, almeno in certe ore del giorno, la terra sembra liquida e quel pezzetto di pianura veneta, quella che unisce il vicentino al trevigiano ignorando Padova, sembra un enorme lago un po’ turchese e un po’ grigiastro. I nebbioni dei tempi passati sono un ricordo lontano, e sono rari e strambi – eppure affascinanti – esempi umani quelli che ne provano nostalgia. Lì dove imperava il calivo che tutto rallentava, è rimasto il calivéto, che si limita a sfumare i contorni, ha smesso di trasformare e celare la realtà, la maschera un po’ soltanto.
La nebbia è quasi del tutto scomparsa perché non c’era più spazio per lei. Era un retaggio di qualcosa che non esiste più, fuori tempo massimo come certi ciclisti che ci hanno messo troppo per arrivare all’arrivo. Non esiste quasi più perché stonerebbe e striderebbe troppo con la pianura odierna sempre più veloce, sempre più frenetica, con il piede costantemente premuto sull’acceleratore.
A che serve il calivo se bisogna andare, andare e andare e per di più veloce? Un tempo quanto meno era utile per confondere. Per mascherare all’occhio la desolazione di campi che attendevano la bella stagione per colorarsi e alberi immobili come scheletri messi lì per ricordare che la vita è breve. O permettere allo sguardo di riposarsi da quel susseguirsi di tristi capannoni di lamiera e cemento, insegne dai font banali e casette fatte in serie da geometri senza troppa fantasia.
Ora anche quel pezzo di pianura corre, perché può finalmente farlo. Non deve più seguire le code e i limiti di velocità di strade pensate troppi anni prima per altre auto, altri ritmi, pochi camion e scarse prospettive di benessere. La Pedemontana, o meglio la Superstrada pedemontana veneta, ha portato la velocità anche in quella zona del Veneto dove si produceva tanto ma a lei si pensava poco, a volte niente. O così dicevano imprenditori, politici e politicanti locali. E chissà se è stata la velocità delle automobili a spazzare via il calivo.
La Superstrada pedemontana veneta, per brevità Pedemontana e basta, è una striscia d’asfalto di novantaquattro chilometri e settecentoquarantasette metri, centimetro più centimetro meno, che unisce l’A27, la Venezia-Belluno (o meglio la Mestre-Pian di Vedoia) dalle parti di Spresiano, a nord di Treviso, e l’A4, la Trieste-Torino, dalle parti di Montecchio Maggiore, a sud-ovest di Vicenza. Un vagare tra campagne, ex campagne, zone industriali e artigiane, fabbriche e fabbrichette, capannoni e abusivismo di un tempo, ora evolutisi o in ruderi in malora o in fabbricati condonatissimi. E paesini. Paesini che si addossano ad altri paesini, che si allungano sino a incontrarsi, a unirsi, disegnando piccole stelle di edifici, stradine e parcheggi, tra i campi. Sino a diventare una cosa soltanto pur sentendosi ancora diversi, più storie in un corpo solo.
La Pedemontana è l’infrastruttura che dicevano necessaria per quel Veneto che produceva ma non aveva ricevuto in dote nessuna via veloce per collegarlo direttamente al mondo. Un microcosmo di 87 mila imprese e 370 mila lavoratori, che esporta merci in tutto il mondo e contribuisce al pil italiano per circa 34 miliardi di euro, circa il 7 per cento del totale.
Della necessità di realizzare un asse stradale che congiungesse le città e i centri industriali ai piedi delle Prealpi venete all’Autostrada che portava a Milano si iniziò a parlare nella prima metà degli anni Settanta del Novecento. Angelo Tomelleri (Dc), presidente della Regione tra il 1973 e il 1980, si espose in prima persona. Nella campagna elettorale del 1980, il suo successore, Carlo Bernini (Dc), promise agli elettori un rapido iter verso la costruzione e fu premiato con un quasi plebiscito in quelle zone. Un primo abbozzo di progetto venne presentato però solo nel 1985. Si dovette aspettare il febbraio del 1990, durante la presidenza di Gianfranco Cremonese (Dc), per l’inserimento della Pedemontana nel Piano regionale dei trasporti della regione del Veneto. Nel 1995 venne presentato un progetto (più o meno) definitivo e solo nel 1999 l’infrastruttura ottenne l’inserimento del finanziamento per i lavori (40 miliardi di lire per 15 anni) nella Finanziaria.
Gli espropri furono resi esecutivi solo nel 2010, undici anni dopo. La posa della prima pietra avvenne il 10 novembre del 2011. In mezzo ci furono concorsi e ricorsi, progetti finiti al macero, fallimenti, multe europee, Via (Valutazione impatto ambientale) respinte, concesse ma con prescrizioni, concessioni date e poi tolte, cambi nella società che si era presa in carico la costruzione. Il solito teatrino attorno alle grandi opere al quale in Italia siamo abituati.
I lavori iniziarono per davvero nel marzo del 2013. L’apertura al traffico del primo tratto di 7,2 chilometri (da Breganze all’allacciamento con l’autostrada A31 “Valdastico”) è avvenuta il 3 giugno 2019. Sei anni di lavori e un morto sul lavoro, Sebastiano La Ganga, rimasto schiacciato dal crollo di un tratto della volta della galleria tra Malo e Castelgomberto (lunga 7 chilometri).
Il 3 maggio 2024 la Superstrada pedemontana veneta è stata completata definitivamente, innesti alla A4 e alla A27 compresi. Dal giorno dopo le automobili hanno potuto percorrerla per intero. Quel microcosmo veneto – anzi, i nipoti di quella generazione – che si sentiva abbandonato, costretto a guardare da lontano la velocità delle merci, è stato accontentato.
Certo a caro prezzo: 15,9 euro per 94,747 chilometri, circa 16 centesimi a chilometro, circa il doppio del costo di un’autostrada qualsiasi. Forse è anche per questo che di automobili sulla Pedemontana non è che ce ne siano tantissime, nonostante le insistenze dei sistemi di navigazione più in voga che in un modo o nell’altro ti consigliano di utilizzarla. Forse è anche per questo che è vivo il detto “pitost dea Pedemontana me sparo in tel pie” (e anche altre varianti più colorite, che richiamano a parti corporee meno esposte allo sguardo).
La Pedemontana però vale il biglietto. Non tanto per l’utilità dell’infrastruttura, ma quello che è e rappresenta, per la capacità di essere l’ultima tappa di un percorso storico iniziato circa verso il Cinquecento.
E’ da secoli che le campagne del Veneto si restringono per guadagnare altezze. Acquisiscono tonalità che non avevano mai avuto, dal rosso dei coppi dei tetti che furono, al bianco degli intonaci delle ville, al grigio del cemento armato fino al nero dell’asfalto. Non per forza un male, visto che per secoli l’unica cosa che riuscivano a dare a chi le abitava erano mais, cipolle, pellagra e miseria, mentre a Venezia le pance erano sazie e i visi rubicondi.
E’ più o meno dal Cinquecento che il potere in Veneto ha preferito materializzarsi nelle campagne piuttosto che nelle città. Buoni economi i veneti: Venezia era piena e strappare altra terra al mare costava troppo, nelle altre città di pianura gli spazi erano intasati da piccoli poteri e qualche riccastro di troppo, meglio costruire altrove, nelle campagne poco abitate, i monumenti a se stessi e alla propria agiatezza. Ville, chiesette, cappelle votive, si distribuirono praticamente ovunque ci fosse un luogo rialzato dal quale si potessero vedere a colpo d’occhio i propri possedimenti. E ovviamente farsi vedere dagli altri. Vanità residenziale.
Un’“occupazione” delle campagne divenuta necessaria vista la contrazione dei traffici di merce nel Mediterraneo dopo l’apertura di quelli atlantici. Tutto ciò spinse le ricche famiglie veneziane verso lo sfruttamento della terra ferma: agricoltura, allevamento, cose così, non più solo il disboscamento per garantirsi il legname che serviva per navi e costruzioni. La villa divenne così nuova dimostrazione di potere e, assieme, una nuova fonte di reddito.
Da quel momento, ogni potere, nessuno escluso, iniziò a lasciare le sue testimonianze nelle campagne venete. Dalle ville, si passò alla creazione di nuovi borghi, alla realizzazione di infrastrutture, non sempre necessarie, alla costruzione di palazzi ed edifici mastodontici buoni per fiere e altri svariati utilizzi. Poi, nel secondo Dopoguerra, arrivarono le lottizzazioni. Come spiegava lo scrittore Luigi Meneghello, “la dimostrazione del potere politico si espresse nella capacità di lottizzare: la forza dei ‘notabili’ della Democrazia cristiana, ma non solo della Dc, si misurava in quanti lotti edificabili e zone industriali si riuscivano a creare”. Se si riusciva poi a dare il via a una grande opera si prendeva la direzione di Roma, un posto in Parlamento era assicurato.
L’ultima grande opera campagnola è la Superstrada pedemontana veneta. E la Superstrada pedemontana veneta è il grande “monumento” dell’èra Zaia in Veneto che si chiuderà dopo il voto di domenica e lunedì.
E sì che durante il suo quindicennio alla guida della regione il Doge trevisan ha presenziato alla prima alzata del Mose, la grande opera architettonica che ha salvato, e per ora con successo, Venezia dall’Acqua alta. Il Mose però non è zaiano, è eredità del lavoro di Giancarlo Galan (alla guida della regione tra il 1995 e il 2000). Fu l’ex presidente a fare in modo che il progetto superasse lo stallo nel quale era finito e i lavori potessero riprendere. Finì bene per Venezia, male per Galan, che pagò – con un arresto e un patteggiamento per corruzione – anche colpe non solo sue.
Troppo complicato e poco lungimirante intestarsi la vittoria sulle acque della Laguna, troppo intelligente politicamente Luca Zaia per farlo davvero. Anche perché il Mose non si vede, quando non è necessario rimane nascosto. Luca Zaia aveva bisogno di qualcosa visibile e tangibile, che diventasse la sua opera, qualcosa che fosse a sua immagine e somiglianza.
E’ la Superstrada pedemontana veneta il suo monumento ai posteri. La dimostrazione di cosa è stato il Veneto durante i suoi quindici anni. E’ la Pedemontana la rappresentazione più riuscita dello Zaiastan.
Basta farci un giro guidando un’automobile per capirlo. I marmi di caselli, aree di sosta e terrapieni, le finiture di gallerie e uscite, le forme di viadotti sono il trionfo dell’estetica dello Zaiastan, quel mescolarsi di chic e kitsch fatto di riccioli impomatati all’indietro con la brillantina, camicie slim-fit, braghe troppo strette sui polpacci (che hanno contagiato pure a sinistra), cravatte sottili e monocolor, giacconi doppiopetto da cumenda anni Ottanta. Ossia, da quasi vent’anni, l’estetica che domina il gusto di ricchi, riccastri e arricchiti o wannabe tali nelle cittadine venete.
E non poteva che attraversare le campagne il monumento dello Zaiastan. Perché la storia di Luca Zaia è una storia orgogliosamente di campagna. Nato a Conegliano, ma originario di Bibano, frazione di Godega di Sant’Urbano, in quella Sinistra Piave di terre piatte e colline che puntano alle Prealpi, di campi di mais, viti e capannoni. Inurbatosi a Udine per gli studi, passato per mille lavori e lavoretti, arrivato alla politica locale e poi promosso a quella regionale e nazionale grazie alla parlantina schietta perfettamente comprensibile dal suo elettorato, ai modi di fare e di parlare in sintonia con il suo ambiente. E mai lasciati, nonostante i due anni passati a fare il ministro delle Politiche agricole, alimentari e forestali e i quindici alla guida del Veneto. Uno del quale dicono, e sono molti a farlo, che “xé un de noialtri”, uno che ancora “se ricorda da dove el vien”, che “no se desmentega dea tera”, uno che “el sa star ben sia in osteria sia dal presidente dea Repubblica”. Insomma, uomo di popolo, che piace al popolo, a quel popolo che si sente veneto ancor prima di italiano, a quel popolo che parla in dialetto con fierezza e, a volte, ostentazione. A quel popolo che “Veneto xé stupendo / Veneto fino in fondo / Veneto xé el mondo / A mi no me intaressa Milano e gnanca Hongkong / cossa vuto che vaga a Londra, a Roma, a Bangkok / Cossa ghe xe?” come dice la canzoncina. A quel Veneto che non ha mai sognato il Cocoricò o Riccione, ma ha sempre considerato il Muretto come il posto delle feste e Jesolo o Caorle il mare.
Quel popolo che però la Pedemontana non è che la prenda poi volentieri, nonostante i marmi e la cura dei dettagli. Perché in fondo “la costa massa” e quindi “pitost dea Pedemontana me sparo in tel pie”. Non sempre i monumenti servono davvero, molte volte sono monumenti e basta, il ricordo di un’epoca.