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il teatrino
L'attentato a Ranucci e la sceneggiata di Scarpinato in commissione Antimafia
Tra insinuazioni e fantasiose ricostruzioni il senatore M5s (ed ex magistrato) ha chiesto al conduttore di Report se fosse vero che qualcuno lo avesse pedinato “su ordine di Fazzolari”. La replica del sottosegretario e braccio di destro di Meloni: "Delirio di Scarpinato”
In Commissione antimafia, dove si dovrebbe parlare di mafia, ieri pomeriggio si è parlato invece di Giovanbattista Fazzolari. L’occasione era l’audizione di Sigfrido Ranucci, giornalista di “Report”, chiamato a riferire dopo l’attentato intimidatorio che ha subito con l’esplosione della sua automobile. Tutto molto serio, tutto molto grave, finché il senatore Roberto Scarpinato – ex magistrato di punta della stagione del furore giudiziario, oggi in quota M5s – non ha deciso di rimettersi in scena, come gli viene naturale sin dai tempi in cui indossava la toga. Uomo di fantasiose ricostruzioni e di contundenti insinuazioni, Scarpinato ha chiesto a Ranucci se fosse vero che qualcuno lo avesse pedinato “su ordine di Fazzolari”.
Ora, Fazzolari è il braccio destro di Giorgia Meloni, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio. E la domanda, in quella sede e con quei toni, era perfetta per produrre l’effetto voluto: sospendere il tempo, caricare la scena, insinuare il riflesso automatico del giornalista di contropotere delegittimato dai prepotenti al governo. Quelli che forse gli hanno pure messo una bomba sotto l’auto. Non un atto di indagine, ma un atto politico. Un colpo di teatro dentro la solennità istituzionale. Ranucci, che pure ha ricevuto minacce reali e vive una vicenda personale drammatica, ha reagito chiedendo di spegnere i microfoni. La seduta è stata secretata. Non si sa che cosa abbia risposto, ma la sceneggiata era già completa. Bastava la domanda.
Fazzolari ha poi replicato con una nota furibonda: “Delirio di Scarpinato”, “individuo”, “inorridisco al pensiero che questo uomo sia stato magistrato”. E ha ragione su almeno un punto di metodo: la Commissione antimafia non è un palcoscenico per monologhi di dietrologia, né un tribunale improvvisato dove si può insinuare il coinvolgimento del governo in un attentato senza uno straccio di riscontro. Ma il punto, forse, è ancora più sottile.
Qualche giorno fa Giuliano Ferrara aveva lodato Ranucci proprio per non aver ceduto alla tentazione del complotto, per aver detto “sento lo stato vicino” e “non vedo mandanti politici”. Un comportamento sobrio, quasi inatteso, che rompeva la liturgia della vittima di stato, il copione dell’eroe del contropotere inseguito da forze oscure. Ebbene, Scarpinato ha cercato di rimettere in scena quel copione, di restituire al racconto la sua dose di persecuzione, di risentimento e di orrore democratico. Come se non sopportasse che il protagonista avesse scelto di non recitare. Non è soltanto la solita Italia che trasforma la tragedia in complotto e il sospetto in notizia.
E’ qualcosa di più urgente: il riflesso forsennato di utilizzare qualunque fatto, anche il più serio, come strumento di piccola lotta politica contro avversari che non si riesce a sconfiggere attraverso il corretto esercizio della dialettica parlamentare e democratica. La morale, se ce n’è una, è che la lotta alla criminalità, la difesa della libertà di stampa e in definitiva dell’incolumità stessa di Ranucci non hanno bisogno di metafore né di comizi, ma di sobrietà e responsabilità. La verità è un mestiere lento. Il sospetto, invece, è un applauso immediato. E Scarpinato, che la giustizia l’ha sempre maneggiata come una clava, adesso la usa come una battuta teatrale. Alla fine non ci guadagnerà voti il M5s, non ne uscirà danneggiato il governo e soprattutto così non si farà un passo in più in difesa dei giornalisti minacciati.