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l'intervento

Quanto è pericoloso un Pd che considera “riformismo” una parola malata

Walter Verini

Davvero vogliamo una sinistra minoritaria? Il senatore Pd (e veltroniano) Verini risponde al collega (del Pd) Arturo Scotto

Al direttore - Definire “malata” la parola riformismo, come ha fatto sul vostro giornale Arturo Scotto, dirigente del Pd, il mio partito, non va bene. Spero intendesse malata per abuso, per reiterate appropriazioni indebite. Attenti, però, con le parole. Concetto simile è stato usato tante volte nella storia, con ira funesta pari a quella che infiniti lutti addusse agli Achei. Lenin e Trotsky, con diverse modulazioni, la usarono contro i menscevichi. (Successivamente Stalin, con Beria, usò metodi notoriamente più sbrigativi per discutere, anche con Trotsky). Sempre all’ingrosso, trattamenti non diversi ebbero Bernstein e Kautsky, dalle diverse Internazionali comuniste. Che per molti anni usarono e diffusero teoria e termine “socialfascisti”, per definire socialdemocratici e riformisti.

 

Anche in Italia i Riformisti non ebbero vita facile. Da Turati a Matteotti, che prima di essere fatto assassinare da Mussolini, fu bandito perfino dal PSI, dopo la scissione di Livorno. I riformisti non ebbero vita facile neanche nel PCI. Per lunghi anni. Dopo l'esilio, gli anni di ferro e di fuoco, l'Hotel Lux, Togliatti tornò, fece la svolta di Salerno, lanciò la vita italiana al socialismo. Del resto, gli stessi comunisti italiani, al confino, in esilio, in montagna, si erano abituati a frequentare riformisti (quando non lo erano essi stessi) e a combattere con loro: nelle brigate partigiane c'erano socialisti, socialdemocratici, popolari e futuri democristiani, azionisti, repubblicani. E c'erano liberali e perfino monarchici, questi magari non troppo riformisti.

 

Penso, davvero, che Arturo Scotto non ritenga che anche i partigiani fossero "Junior partners" ( per usare un termine che egli stesso usa in questi giorni a proposito di riformisti subalterni alla destra, e ridagli con i tic del secolo breve...) degli Alleati Anglo Americani che vennero in Europa e in Italia per aiutare a liberarci dai nazifascismi. E dall'orrore della Shoah. Poi passò acqua sotto i ponti. I comunisti italiani firmarono la Costituzione. Togliatti scrisse anche Ceti medi ed Emilia rossa. Certo, per anni con gravi stop and go. Nel '51 i "pidocchi" Cucchi e Magnani vennero cacciati dallo stesso Togliatti dal "purosangue" PCI. E anche il leader CGIL Di Vittorio non era, diciamo, allineato e gradito a Botteghe Oscure. Nel '56 – invasione dell'Ungheria – il PCI stette dalla parte sbagliata e molti riformisti ( Giolitti in primis) scelsero la stessa Uscita di sicurezza che aveva scelto Ignazio Silone. Poi però, con i limiti del tempo, lo stesso Enrico Berlinguer (che i gruppi extraparlamentari insultavano come “servo della borghesia” – Junior partner ? - e traditore della classe operaia, andò in URSS, spiegò in sette minuti sette (agli altri leader comunisti dei partiti “fratelli” ne diedero venti) che “la democrazia è un valore universale”, nel gelo immobile delle statue di sale della nomenclatura brezneviana. E Natta, nel 1986, fece votare al Congresso di Firenze l'affermazione solenne: “Il PCI parte integrante della sinistra europea”. Certo, tutto questo – sempre un po' sull'onda della memoria – con tanti freni a mano, con troppi pudori. Ne discutevano i comunisti, con i Bobbio, i Foa, ma senza trarre conseguenze. Prima di definirci quello che già eravamo, cioè riformisti, parola vitale e viva, non malata, e dopo aver lasciato alle spalle la autodefinizione “rivoluzionari”, passammo via via alle “riforme di struttura”, a “riformatori”, a “riformismo forte”, approdando dove deve approdare una sinistra che non vuole guardare i cambiamenti dal buco della serratura, ma vuole provare a capirli e governarli. La Svolta di Occhetto fu questo.

 

Il Pd nacque – sia pure dieci anni dopo l'Ulivo – per questo. Una sinistra che vuole fare sintesi, reale, delle culture riformiste che anche se in debito d'ossigeno sono vitali (comprese quelle più recenti dell'ambientalismo, del femminismo, dei diritti civili). Un sinistra priva di cultura minoritaria, europeista, che vuole tenere insieme la rappresentanza dei vecchi e nuovi poveri del mondo (vogliamo dirlo: sfruttati) con quella di ceti medi, forze produttive, imprese, innovazione. Anche per provare a reggere insieme – senza verità assolute, che non ci sono – le sfide di un mondo che cambia vorticosamente se stesso. Se c'è crescita, c'è redistribuzione. Giustizia sociale e pari opportunità. Riformismo, in sintesi. Una sinistra che prende radicali distanze da chi vuole sporcare le manifestazioni (scendere in piazza è giusto) “spaccando tutto”, da chi insulta la Segre e non fa parlare Fiano, da chi non sta coerentemente con l'Ucraina. Una sinistra che difende i palestinesi dal terrorismo di Hamas e Israele dall'estremismo fanatico delle destre e di Nethaniau. E che si batte contro l'antisemitismo. Una sinistra minoritaria e di testimonianza, quella sì, è Junior partner della destra e delle destre autoritarie, autocratiche, dittatoriali che dominano la scena del mondo.

Walter Verini è senatore del Pd

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