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Algebra a sinistra. Il dilemma del Pd: conquistare consenso o costruire una leadership credibile

Stefano Menichini

La tela di Onorato, l'abilità di Manfredi e il civismo di Salis: ma una coalizione che si amplia non necessariamente si rafforza. Il centrosinistra ha bisogno di vincere non solo per sommatoria di sigle ma per la credibilità e autorità di una proposta

Si muove bene Alessandro Onorato, che su concerti e maratone ha costruito a Roma una buona posizione post-rutelliana – trait-d’union con quel precedente, la tutela di Goffredo Bettini – e che nell’assemblea del suo Progetto civico batte e ribatte sulla sicurezza nelle città come autentica emergenza democratica (più avvertita dai cittadini di quella evocata da Elly Schlein: non lo dice esplicitamente ma si capisce). Bene anche Gaetano Manfredi, che nella stessa occasione ancòra il progetto a sinistra e soprattutto usa la carica di presidente dell’Anci, sia pure con discrezione e rispetto dei ruoli, per convogliare nel contenitore civico gli amministratori che spesso il Pd preferisce ignorare. Benissimo infine Silvia Salis, che di un contesto civico ha bisogno per sottrarsi alla corte interessata di Renzi e crescere come leader al contempo politicamente radicata a sinistra “ma anche” post-ideologica: quando lei dice che “per i sindaci non esiste un tema, dalla sicurezza all’immigrazione, che non si possa toccare perché di destra”, occupa uno spazio di mercato elettorale ma entra anche nel principale vacuum della linea del Pd. Il quale guarda con benevolenza a questi contenitori che si propongono di fare il mestiere che ai dem non interessa più.

 

Ma non si rende conto che, nel sommare tanti segmenti di potenziale consenso elettorale, la coalizione si amplia ma non necessariamente si rafforza. Se ai primi tre posti nella classifica dei governi italiani più longevi dell’era repubblicana si collocano tre premier del centrodestra (Berlusconi, Berlusconi, Meloni), è anche perché l’idea di qualcuno che sia il capo indiscusso della propria coalizione e anche del primo partito ha funzionato nella dinamica politica e piace agli elettori, non solo di destra. Il centrosinistra è diverso, si sa. I capi da quelle parti piacciono poco e non vanno mai molto lontano, chiedere a Matteo Renzi. Ma accontentarsi di essere il primus inter pares – che sembra tanto la comfort zone di Elly Schlein – può andar bene per le persone, mentre è devastante se applicata ai partiti. Anche gli elettori del centrosinistra hanno bisogno di un principio di autorità, di sapere chi tiene il timone e quale sia la rotta. E’ un deficit mai colmato dai tempi di Romano Prodi. Una condanna alla precarietà profondamente radicata nell’elettore progressista.

 

Questa è la domanda più forte che dovrebbe salire dall’assemblea milanese dei riformisti del Pd, venerdì prossimo. Non tanto, non solo, rettifiche della linea schleniana, più attenzione su sicurezza e ceti produttivi, garanzie per la minoranza interna. Piuttosto un soprassalto di ambizione, la voglia di vincere non solo per sommatoria di sigle ma per la credibilità e autorità di una proposta di leadership che, se non da una persona, venga almeno da un partito largamente e indiscutibilmente egemone nella propria coalizione. Per poter aspirare a tanto, bisogna quanto meno volerlo. Invece il Pd non sembra interessato. I contenuti, il posizionamento, i toni, le scelte parlamentari: tutto fa pensare non tanto alla subalternità ad altre forze politiche – come è di moda dire criticando Schlein – quanto alla scelta di rivolgersi non a tutto l’elettorato, e neanche a tutto l’elettorato di centrosinistra, ma solo al sottoinsieme degli elettori delle primarie democratiche vinte nel 2023, e ai movimenti spontanei di queste settimane la cui resa elettorale è, come sempre, assai aleatoria.

 

Intervenendo a Roma, Manfredi si è riferito all’area crescente dell’astensionismo non ideologico, nei confronti del quale la concretezza dei sindaci può risultare attrattiva. Sarà sicuramente così. Matteo Ricci se n’è ricordato tardi. Antonio Decaro, per dirne un altro, aiutato dalla tempistica ha fatto in tempo a far sfumare le bandiere palestinesi dai comizi pugliesi. Per quel che se ne sa, ciò che della politica maggiormente respinge gli astensionisti sono proprio l’astrattezza e la lontananza dei temi, e poi i toni eccessivi, la rissosità, la ricerca continua dei motivi di divisione.

    

Sembrerebbe una strada spianata per i riformisti nel Pd, un sacco di lavoro da fare. A patto di farsi sentire, perché ci sarà sicuramente una via di mezzo fra toni eccessivi e nessun tono. Con un solo pericolo da scongiurare: che la loro vicenda venga raccontata solo come contrattazione e difesa di spazi. Perché in questo caso poi l’interesse si sposterà altrove, magari proprio su questo carsico partito dei sindaci riesumato ad hoc. E un onorevole pezzo della storia del Pd finirà in archivio.

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