
(foto Ansa)
l'editoriale del direttore
Tre anni di Meloni insegnano che trattare gli elettori da adulti non è necessariamente un modo per perdere consenso
Kyiv, conti, armi. Non era scontato che le percentuali di FdI restassero alte nel corso di questi anni di governo, nonostante alcune scelte non demagogiche fatte dalla premier. E' il segno che il pragmatismo paga
Il governo Meloni, come sapete, ieri ha tagliato il traguardo dei tre anni di durata. Tre anni di governo, per l’Italia, sono tanti, e solo due prima di questo hanno avuto una vita più lunga: il Berlusconi II e il Berlusconi IV. A differenza dei due governi Berlusconi, una delle caratteristiche del governo Meloni è il suo avvicinarsi alla data delle elezioni (2027, maggio probabilmente) con un consenso del suo partito e della sua coalizione che grosso modo coincide con il consenso di partenza (43,8 per cento nel 2022, circa 46 oggi). Meloni sa che nulla di quello che ha oggi a disposizione sarebbe stato possibile (cuoricini) senza i regali offerti dal centrosinistra: prima la divisione alle politiche del 2022, poi la trasformazione del Pd in una pecora nera del socialismo europeo, infine la creazione di un campo largo che giorno dopo giorno, in modalità campo letargo, appare sempre più simile a una semplice espressione geografica.
Tra gli elementi che hanno permesso a Meloni di avere un consenso stabile in questi anni vi è però un dato sottovalutato che riguarda una delle due facce del melonismo. Una faccia è quella che ha a che fare con il volto demagogico di Meloni, volto che esiste ancora, specie nei momenti in cui la premier usa la carta del vittimismo e del complottismo. Un’altra faccia, invece, è quella che ha a che fare con una modalità trascurata: la capacità di conquistare voti sfidando il suo stesso elettorato. Non era scontato, per quanto l’opposizione cerchi ogni giorno di renderlo possibile, che le percentuali del partito guidato da Meloni restassero alte nel corso dei tre anni nonostante alcune scelte non demagogiche fatte dalla premier. Scelte come il posizionamento dell’Italia su una linea fieramente pro Ucraina e discretamente europeista (Schlein accusa Meloni di essere un pericolo per la democrazia ma al Parlamento europeo vota la stessa presidente della Commissione votata da Meloni). Scelte come l’equilibrio sul medio oriente, come il rigorismo sulle politiche di bilancio, come il sostegno sulle politiche di riarmo, come la revisione del Superbonus, come il freno alla demagogia leghista sulle pensioni.
Meloni, progressivamente, ha compreso che per difendere gli interessi nazionali dell’Italia occorreva mettere da parte gli interessi dei nazionalismi, giochino che in parte le è riuscito, e il dato più sorprendente di questi anni in fondo è l’essere riuscita a fare del pragmatismo una strategia attraverso la quale distinguersi dalla Lega più estremista (il principale asset del melonismo in fondo resta sempre quello: non essere Salvini) e attraverso la quale distinguersi da un centrosinistra che si è allontanato dal mainstream europeo, e anche dal Pse, mentre la Meloni ci si avvicinava (ragione per cui l’ordinario di Meloni a volte sembra straordinario). La capacità di Meloni di costruire consenso anche attraverso il realismo è però un dato cancellato da tutti: sia dagli alleati sia dai nemici. Le ragioni sono ovvie. Dall’opposizione non si può rimproverare più di tanto il principale avversario di essere incoerente, altrimenti si dovrebbe ammettere che il principale avversario ha caratteristiche diverse e meno pericolose rispetto a quelle del passato. E d’altro canto, da destra, non si può ammettere che Meloni abbia fatto delle scelte di rottura rispetto al proprio passato, perché altrimenti bisognerebbe riconoscere quanta demagogia nel passato ha seminato il nazionalismo di destra. Quello che però forse dovrebbero notare avversari e amici del presidente del Consiglio è una questione che forse potrebbe tornare utile in futuro a tutti coloro che sostengono che non vi sia alternativa in politica alla conquista del consenso per via esclusivamente demagogica. In tre anni a Palazzo Chigi, Meloni ha conquistato consenso anche sfidando il proprio elettorato. E se si riesce a conquistare consenso anche giocando con il pragmatismo, forse bisognerebbe trarne le conseguenze: trattare ogni tanto gli elettori da adulti non è necessariamente una strada destinata a distruggere consenso. Chissà se durerà.