
Ansa
Al teatro La Fenice
Quello che non va in Beatrice Venezi: prorompente, pop e di destra. Anatomia di un massacro
Non potendo attaccarla per trasparenza o correttezza, l’hanno colpita sul piano più soggettivo: la qualità del gesto, l’interpretazione, il gusto. E, quando non bastava, sull’apparenza. La personalizzazione è la fase più sporca
“C’è un solo modo onesto per sapere se è brava o no: provarla. Farle fare il suo lavoro”, dice per esempio Arrigo Cipriani che è l’anima nobile di Venezia. Il resto è rumore: carte, premesse, insinuazioni, sindacalismi, sospetti di casta, dicerie dell’untore. E un caso che si gonfia fino a diventare addirittura internazionale, più grande di quello che dovrebbe essere. “Beatrice Venezi è una professionista di livello, giovane e capace”, dice Nicola Colabianchi, il sovritendtendente del teatro la Fenice. Una professionista con un curriculum che è persino migliore di quello di tanti altri direttori, questi sì improvvisati, che dirigono nei teatri dell’Opera italiani. Lo dicono tutti, al ministero a Roma, tra i sovritendenti non al pascolo di sezione, tra gli orchestrali che non vivono di orgogli luciferini, tra i musicologhi che non fanno partito persino della musica.
D’altra parte, basta fare una telefonata per sentirsi dire: “Beatrice Venezi non è Muti e non è Karajan, ovviamente. Ma ha titoli assai migliori di gente che da noi dirige e la cui qualità principale sta nel cognome ereditato dal padre. C’è pure un ex avvocato che si è scoperto musicista e dirige un importante teatro soltanto perché ha un genitore ministro”. E i titoli, infatti, ci sono. E fanno impressione, se appena si ha l’onestà di leggerli. A ventisette anni già dirigeva al Festival Puccini, a trenta era sul podio dell’Orchestra della Toscana, a trentadue guidava la Fondazione Taormina Arte...
A trentaquattro era al Teatro Colón di Buenos Aires: la prima donna nella storia di quel tempio a impugnare la bacchetta dove erano passati Toscanini, Kleiber, Serafin. Ha diretto più di cinquecento serate, tra opere e concerti sinfonici, da Mozart a Puccini, da Verdi a Busoni, accanto a voci come Domingo, Vargas, Grigolo, Álvarez, Garifullina, Bruno Canino. E’ stata sul podio in Giappone, Corea, Stati Uniti, Francia, Germania, Regno Unito, Armenia, e in Italia nei teatri di Trieste, Cagliari, Catania, con le orchestre dei Pomeriggi Musicali e della Toscana. Il Corriere della Sera la incluse tra le cento donne dell’anno, Forbes tra i cento under 30 destinati a guidare il futuro. Eppure alla Fenice di Venezia la musica si è fermata. Scioperano gli orchestrali. Non per un contratto, né per un aumento: per chiedere la revoca della nomina della direttrice. E’ la prima volta che un teatro d’opera interrompe le prove non contro la direzione, ma contro il direttore d’orchestra.
La prima di Wozzeck, il 17 ottobre, è previsto che salti. Le sigle sindacali parlano di democrazia, di metodo, di confronto mancato. L’orchestra, che in teoria è una società ideale – gerarchia e ascolto, responsabilità del singolo dentro un disegno comune – diventa improvvisamente una piazza. Invece della disciplina, la raccolta firme. Invece della catena artistica, la catena di sant’Antonio. Si chiamano “valutazioni tecniche”, ma suonano come plebisciti. Volantini, appelli, interviste, titoli di giornale. Giudizi. Alla fine è passata l’idea che i musicisti fossero i giudici e il teatro l’aula di un tribunale artistico. Ma sotto c’è altro: un teatro che insorge contro il proprio podio, un’orchestra che si ribella contro una figura che ha tutte le caratteristiche per essere aggredita. Donna, d’una femminilità prorompente, una figura pop al punto d’aver fatto Sanremo e la pubblicità televisiva con i capelli al vento e, per soprammercato, una donna di destra. E se sei di destra non valgono certo tutte le cautele culturali, tutte le delicate sordine che di solito applichiamo al sesso femminile. Gli stessi giornali che fino al giorno prima la chiamavano “genio precoce della bacchetta” – e la citazione è letterale da un grande quotidiano come Repubblica – hanno preso a scriverne come di una decorazione di regime.
C’è sempre un precedente che ci aspetta in biblioteca. Paolo Isotta, nel suo “Manuale di decomposizione”, descrisse così la macchina del discredito: “In Italia il massacro non ha mai bisogno di un plotone: bastano le buone maniere. Si dice ‘non all’altezza’ e pare una perizia tecnica. E’ un modo educato per dire ‘non dei nostri’”. Isotta, il grande musicologo, che non era di sinistra, nel 1976 fu assunto dal Corriere della Sera. E venne accolto da una raccolta di firme promossa da Giulia Maria Crespi che chiedeva di revocarne l’assunzione. Cambiano gli strumenti, non la partitura. Quello che allora fu un massacro d’appartenenza, oggi è un massacro di percezione. Il cambio di partitura risale a un anno fa, quando la Venezi accettò di salire sul palco di Atreju. Parlava di armonia, non di partiti, ma bastava la cornice: la tenda verde, il logo di Fratelli d’Italia, la foto con Giorgia Meloni. E’ bastato quello. Da quel momento la musica è sparita, sostituita dalle accuse. “Televisiva”. “Politicizzata”. “Fuori luogo”. “Inadeguata”. “Priva di titoli”. A poco a poco. Da allora ogni gesto è diventato sospetto, ogni sorriso un segno politico. E’ bastato che fosse percepita “di destra” perché il talento si rovesciasse in colpa.
Non potendo attaccarla per trasparenza o correttezza, l’hanno colpita sul piano più soggettivo: la qualità del gesto, l’interpretazione, il gusto. E, quando non bastava, sull’apparenza. La personalizzazione è la fase più sporca. Si passa dall’arte al corpo: la voce si sposta dal gesto musicale all’aspetto, dal curriculum all’abito. La femminilità diventa indizio: il trucco, il taglio di capelli, i vestiti, le gambe nude. L’estetica, che in un sistema sano sarebbe irrilevante, diventa arma retorica. Non si chiede più “Cosa hai suonato?” ma “Come ti presenti?”. E la risposta pubblica è spietata: quando una donna non si nasconde, la si punisce per aver scelto di mostrarsi. Poi arriva la tecnicizzazione: i dossier, le richieste di verifiche, le note sul curriculum. Infine l’istituzionalizzazione: inviti che saltano, collaborazioni che si raffreddano, nomine che vengono rimesse in discussione. La reputazione subisce perdite materiali. E l’eco non si è fermata ai confini. Il Guardian pochi giorni fa ha titolato: “Scoppia una polemica dopo che l’Opera di Venezia assume una direttrice legata al governo Meloni”. Leggono i nostri giornali, ne assorbono il tono, ne ripetono la trama. Ma Ivan Hewett, tre giorni fa, sul Telegraph ha scritto così: “Nulla di tutto questo significa che Venezi non sia realmente talentuosa. L’ho sentita dirigere L’Amico Fritz di Mascagni all’Opera Holland Park di Londra nel 2021 – un’impresa difficile, con i suoi continui cambi di umore e di tempo – che ha condotto con stile e grazia. E non possiamo prendere per oro colato le critiche che la bersagliano”.
E allora cos’è un massacro? E’ la violenza di una moltitudine contro un singolo. E' quando la critica si fa coro, il giudizio si fa pena, e la reputazione diventa carne da cerimonia pubblica. Dove e come lavorerà Beatrice Venezi quando il sabba avrà consumato il suo nome, ridotto a un titolo di cronaca? Quando Mia Martini tornò finalmente sul palco, dopo anni di silenzio a cui l’industria discografica l’aveva costretta con dicerie irripetibili, disse in un’intervista: “Non mi hanno uccisa, ma ci sono andati vicini”.