Difendere Gaza senza banalizzare il male si può, se si vuole. Linee e paletti

Claudio Cerasa

Manifestare per la Striscia ha senso. Farlo rimuovendo il partito del terrore e sdoganando l’odio contro il popolo ebraico no. Dal fiume al mare ora è virale, anche in politica. L’orrore di un new antisemitismo travestito da "Bella Ciao"

Le centinaia di migliaia di manifestanti che hanno riempito le piazze e le tangenziali di mezza Italia per solidarizzare con il martoriato popolo palestinese, ostaggio di una guerra tragica da ormai due anni, hanno dimostrato, anche durante i cortei di ieri, di avere particolarmente a cuore il tema della rimozione della violenza, quando si parla del futuro del medio oriente. La violenza che sta più a cuore al popolo pro Pal è solo ed esclusivamente quella che riguarda Israele, considerato l’unico ostacolo al raggiungimento della pace anche nelle ore in cui è sulle spalle di Hamas il futuro della pace in medio oriente (ma se nominate “Hamas”, il pro Pal collettivo vi dirà che siete dei genocidi, dunque attenzione).

 

Ma se volessimo prendere sul serio l’impegno dei manifestanti pro Pal contro la violenza, quando si parla di medio oriente, tentativo estremo ma necessario da fare, bisognerebbe spendere forse due parole su una forma di violenza a cui il pro Pal Collettivo sembra essere drammaticamente disinteressato: la banalizzazione delle parole. Banalizzare le parole significa, per esempio, trasformare un inno, questo sì genocida, “from the river to the sea Palestine will be free”, in un canto liberatorio, in un atto eroico di resistenza partigiana, al centro del quale non vi è più il desiderio genuino di proteggere i palestinesi ostaggi della guerra, e in primo luogo dei propri carnefici, ma non ditelo se non volete essere considerati dei genocidi, ma vi è il desiderio, il sogno, l’obiettivo di considerare legittimo, semplicemente, chi inneggia, in modo violento, alla cancellazione di Israele. In molte piazze italiane, negli ultimi giorni, il coro “Palestina libera dal fiume fino al mare” è risuonato con disinvoltura tra i manifestanti, da Trento a Bari, dalle Alpi alle Costiere, ed è stato canticchiato giovedì sera persino dal candidato alla regione Puglia del Pd, il mite Antonio Decaro, e le giustificazioni addotte dal suddetto politico, non sapevo cosa significasse quel coro, andiamo bene, lasciano intendere cosa voglia dire oggi banalizzare. In sintesi: usare slogan genocidi senza rendersi conto del loro significato per il semplice fatto che quegli slogan sono ormai diventati d’uso comune, virali, come una malattia.

 

La banalizzazione del male non è però solo un tema di carattere retorico. È qualcosa che riguarda la pratica e la politica quotidiana. Ed è qualcosa che riguarda una slavina che il popolo pro Pal non sembra essere interessato ad arginare. La slavina è lì, di fronte ai nostri occhi, e vive nel linguaggio che spalanca la strada a un’altra violenza: la progressiva e disinvolta trasformazione dei terroristi di Hamas in partigiani della resistenza. Il salto logico con cui alcuni manifestanti, quelli più vocali, e che però guidano mediaticamente la piazza, hanno trasformato alcune parole del terrore nelle parole simbolo della rivoluzione ha una conseguenza ulteriore, che coincide con una forma di indifferenza assoluta rispetto al rischio di far superare alle proteste pro Pal un confine sottile che in molte piazze è stato purtroppo superato: l’antisemitismo. L’antisemitismo contemporaneo può essere esplicito, naturalmente, e lo è per esempio quando il Pro Pal collettivo considera un ebreo ucciso in quanto ebreo come un ebreo che altro non è che vittima di un odio innescato da Israele. Ma l’antisemitismo contemporaneo può essere anche più sofisticato. E nel suo essere sofisticato non si limita a nascondersi dietro al volto rassicurante dell’antisionismo, ormai sdoganato al punto da essere “cuorato” dai parlamentari della Repubblica in diretta sui social.

  

L’antisemitismo contemporaneo fa qualcosa di più. Si nasconde dietro alla rimozione della parola ostaggi, parola che macchierebbe di una colpa eccessiva i partigiani della libertà. Si nasconde dietro alla cancellazione del sette ottobre, data che costringerebbe a ripensare, in modo troppo traumatico, chi sono gli aggrediti e chi sono gli aggressori. Si nasconde, infine, dietro al tentativo di trasformare il popolo ebraico, e non solo chi guida Israele, nel responsabile morale, e anche di più, della tragedia di Gaza. E in questo processo di criminalizzazione di un popolo, e in questa trasformazione in complici di tutti coloro che non accettano questo schema di gioco, si capisce quanto sia importante, per delegittimare Israele fino in fondo, nazificarlo, considerarlo responsabile degli stessi orrori che hanno subito gli ebrei durante il nazismo, un olocausto, un genocidio, perché se il popolo ebraico diventa l’immagine del male assoluto ogni resistenza diventa legittima, anche quelle ispirate dalla cultura del terrore. Anche quelle ispirate da chi chiede di cancellare Israele dal fiume al mare. In questa nuova cornice all’interno della quale si manifesta contro la violenza sdoganando un altro genere di violenza – non sempre per fortuna – e in questa cornice all’interno della quale si diventa complici di un genocidio semplicemente ricordando che i primi responsabili della violenza in medio oriente sono gli aguzzini di Hamas si capisce bene perché l’algoritmo modello Albanese faccia presa in modo definitivo, letale, anche sulle menti di chi la violenza la vorrebbe eliminare davvero, a Gaza.

  

Si capisce bene perché ci siano partiti che non hanno la forza di tappare la bocca a chi canta dal fiume al mare. Si capisce bene perché ci siano partiti che non hanno il coraggio di ribellarsi a chi si indigna quando si parla di ostaggi. Si capisce bene perché ci siano intellettuali che non smuovono le penne di fronte a uno scenario drammatico che illumina un pericolo che coloro che odiano la violenza dovrebbero fare di tutto per non alimentare: fare della guerra contro gli ebrei una conseguenza naturale e non così drammatica di un mondo che ha scelto di opporsi agli orrori della guerra a Gaza legittimando l’orrore di un nuovo antisemitismo travestito da Bella Ciao. Scendere in piazza per Gaza usando le parole del partito del terrore e rimuovendo l’orrore di Hamas è davvero un modo sano per combattere per avere più pace e libertà in medio oriente? La risposta purtroppo è scontata: dal fiume al mare.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.