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L'editoriale del direttore

L'estremismo non porta voti. Lo ricordano anche le Marche

Claudio Cerasa

La rimozione di Hamas che non porta consensi, l’anti europeismo che non porta benefici, il modello Schlein come assicurazione sul futuro di Meloni e qualche lezione dalla vittoria regionale del centrodestra, senza esagerare

Sorprese, buone notizie, conferme, tratti di anti estremismo, lezioni utili, anche europee, ma senza esagerare. La vittoria netta di Francesco Acquaroli nella prima puntata della lunga stagione delle elezioni regionali offre agli osservatori almeno due spunti di riflessione su cui vale la pena ragionare. Il primo spunto è di carattere locale, per così dire, ed è la fotografia perfetta di un fenomeno politico che, a suo modo, è un unicum nella storia recente del nostro paese. Nel corso della Seconda Repubblica, lo sapete, non è mai successo che una maggioranza di governo si sia avvicinata alle elezioni successive senza un contraccolpo in termini di consenso. Finora, è sempre andata così: chi governava dopo un po’ si logorava e chi non governava dopo un po’ si rafforzava. Le elezioni delle Marche, vinte dal centrodestra, confermano invece un trend non ordinario, in base al quale in Italia, per la prima volta da molti anni a questa parte, chi governa non perde consenso e chi non governa non riesce a capitalizzare il suo profilo di lotta. Un’elezione regionale resta un’elezione regionale e trasformare un voto locale in una lezione nazionale è sempre un esercizio di stile rischioso e spericolato. Ma il fatto che Elly Schlein da quando si trova alla guida del Pd abbia vinto con il suo campo largo appena tre elezioni regionali (Sardegna, Emilia-Romagna, Umbria) su un totale di dieci (Friuli Venezia Giulia, Abruzzo, Piemonte, Liguria, Marche, Molise, Basilicata), a meno di non voler considerare vittoria di parte quella della Val D’Aosta di ieri dove gli autonomisti, sostenuti dal Pd, hanno vinto, spiega bene la ragione per cui il centrodestra considera l’attuale leader del Pd un’assicurazione sulla vita e sul futuro dello stesso centrodestra.

Un voto regionale resta un voto regionale anche quando la tentazione di dargli una connotazione nazionale è forte, e il discorso dovrebbe valere sempre, in ogni contesto, in ogni voto locale. Ma chi forse potrebbe avere maggiore difficoltà a considerare un voto locale quello delle Marche è proprio chi, in queste settimane, ha cercato di scommettere forte sul fatto che il voto regionale di ieri (restano ora Calabria, Toscana, Veneto, Campania, Puglia) potesse avere una valenza nazionale. E dopo aver passato settimane intere a spingere gli elettori delle Marche a dare un “segnale nazionale” contro il centrodestra, ieri il campo largo ha naturalmente cambiato approccio, affrettandosi a dare al voto regionale una valenza semplicemente locale, visto mai qualcuno potesse pensare che le Marche siano la fotografia di un rischio ben presente per il campo largo: essere, con l’assetto attuale, semplicemente non competitivo con il centrodestra.

Se volessimo però tentare un’analisi del voto ancora più spericolata rispetto a chi a destra e a sinistra cercherà di dare una valenza nazionale a un voto che nazionale non è, potremmo dire che se c’è uno scenario più ampio su cui proiettare il voto di ieri, l’unico corretto non è quello nazionale ma è quello europeo. E il dato forse più interessante da fotografare, nelle Marche, è un dato che è ormai una costante da anni: i partiti che hanno scelto di essere timidi sulla difesa dell’Ucraina, nella speranza di racimolare consenso, continuano regolarmente a non trarre alcun beneficio dalla propria postura irresponsabile in politica estera. Nel caso specifico, nelle Marche, perdono terreno, rispetto al 2022, sia il M5s (13,3 per cento alle politiche del 2022) sia la Lega (passata dal 7,9 al 6,4). Guadagna appena un punto Avs (che passa dal 3,3 del 2022 al 4,4), migliora Forza Italia (di un punto), tiene Fratelli d’Italia (intorno al 28 per cento, contro il 29 di tre anni fa, ma con le civiche vicino al governatore uscente e vincente che è di Fratelli d’Italia che hanno totalizzato l’otto per cento) e tiene anche il Pd, che per quanto possa essere stato ambiguo sull’Europa in questi anni non ha ancora seguìto la linea irresponsabile del M5s (il Pd nelle Marche ha totalizzato il 23 per cento, ieri, lista Ricci a parte, nel 2022 era al 20,4). Il calo di Lega e M5s, i partiti più euroscettici delle coalizioni, è ormai una costante in tutte le regionali, senza soluzioni di continuità. E in fondo il filoeuropeismo è un algoritmo che continua a non penalizzare i grandi partiti europei, come è successo domenica anche in Moldavia, dove il partito più ostile nei confronti della Russia, il Pas, ha vinto le elezioni nazionali, ottenendo il 50,3 per cento dei voti rispetto al 24,26 del Blocco patriottico filorusso.

L’antieuropeismo, alle elezioni, non paga, né a livello regionale né a livello nazionale né a livello Ue, almeno per il momento. E d’altra parte, per restare sul terreno scivoloso della politica estera, al momento non sembra pagare neppure la linea di chi, parlando di medio oriente, ha scelto di concentrarsi, rispetto alla tragedia di Gaza, solo sui bombardamenti di Israele dimenticando volutamente chi la guerra l’ha fatta cominciare e chi il popolo di Gaza lo tiene in ostaggio da prima del 7 ottobre a colpi di terrorismo. Il candidato del centrosinistra Matteo Ricci, come è noto, per caricare la campagna elettorale di un significato nazionale, aveva promesso come primo atto da governatore il fondamentale riconoscimento della Palestina al primo consiglio regionale. Chi volesse osservare ciò che è successo alle regionali di ieri senza dare un peso nazionale al voto potrebbe dire che gli elettori delle Marche hanno punito chi ha provato a usare la politica estera per colmare le proprie lacune a livello regionale. Chi volesse osservare ciò che è successo ieri dando un peso nazionale al voto potrebbe dire che anche gli elettori delle Marche sanno perfettamente che cavalcare l’estremismo pro Pal facendosi dettare la propria agenda politica dalla sinistra modello Francesca Albanese e da chi sostiene che i terroristi “non bisogna giustificarli ma bisogna chiedersi che cosa vogliono, che cosa chiedono” non è forse il modo migliore per dimostrare di essere quello che il centrosinistra, Marche a parte, ancora non è: semplicemente, un’alternativa. Le valutazioni politiche sulle regionali si potranno fare più avanti, alla fine della partita, ma qualche lezione c’è: l’algoritmo dell’estremismo non paga, l’anti europeismo non è un veicolo di voti e l’odio nei confronti di Israele si porta molto nelle piazze ma non ancora nelle urne.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.