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L'editoriale del direttore

Lo show incredibile delle Marche, prima campagna a prova di giustizialismo, con comicità inclusa

Claudio Cerasa

Non sappiamo se queste regionali ci diranno qualcosa sulle traiettorie del consenso elettorale. Ma sappiamo che fare politica senza essere ostaggi della dittatura della gogna non è un’utopia: a volte può diventare realtà

Di questi tempi, lo sapete, cercare notizie non drammatiche, in giro per il mondo, è un’operazione spericolata, quasi eroica, quasi impossibile, e anche i bicchieri che a volte sembrano mezzi pieni improvvisamente sono lì di fronte a noi che si presentano tristemente mezzi vuoti. Di questi tempi, dunque, per andare a trovare notizie positive bisogna essere curiosi e ossessivi come i cani da tartufo. Tartufi in giro ce ne sono pochi ma uno importante è lì di fronte a noi e riguarda una storia di cui si parlerà a lungo da lunedì in poi, quando si conosceranno i risultati della prima sfida della lunga sessione delle regionali. Parliamo di Marche, naturalmente, parliamo della sfida tra Francesco Acquaroli, governatore uscente di centrodestra, e Matteo Ricci, europarlamentare del Pd candidato con il campo largo, largo nella coalizione, vedremo anche se nell’elettorato. Delle Marche si parlerà a lungo per capire se, all’interno di questo test, sarà possibile registrare o no un recupero da parte del campo progressista rispetto a quello rivale.

 

Ma ciò di cui si dovrebbe parlare oggi quando si parla di Marche è qualcosa che riguarda un altro test di fronte al quale entrambe le coalizioni possono già dirsi vincitrici. Un test speciale, unico nel suo genere, all’interno del quale sia il centrodestra sia il centrosinistra sono stati protagonisti di una svolta all’insegna di un ismo molto speciale: il garantismo. Matteo Ricci, lo sapete, poche settimane fa è stato indagato per concorso in corruzione, per presunti affidamenti illeciti del comune di Pesaro a due associazioni (2019-24), con “presunte utilità in consenso politico”, qualsiasi cosa questo significhi. Nella prima fase della campagna, il garantismo lo abbiamo visto all’interno del Pd, che nonostante la presenza di un’indagine ha fatto quello che forse mai avrebbe fatto se il candidato indagato fosse stato un avversario: considerare innocente Ricci fino a prova contraria. Il Pd lo ha fatto sfidando non solo la propria natura ma anche quella del suo principale alleato, il M5s, e il secondo dato significativo è che il partito di Conte è stato costretto a reinventarsi garantista, d’altronde il M5s nasce da un comico e non può che produrre ancora oggi una certa dose di comicità, e per non rompere un equilibrio precario con il Pd, e per non rischiare soprattutto sorprese in Campania dove presto potrebbe avere un governatore a cinque stelle, ha scelto, “dopo aver letto le carte”, di non bocciare Ricci solo perché indagato, sforzo eroico che immaginiamo verrà ripetuto anche in futuro quando sulla  strada del M5s dovesse presentarsi un rivale indagato.

 

Il campo largo, nato a pane e manette, si è dunque riscoperto un camposanto del giustizialismo, cosa che non può che rallegrare. E contestualmente, a destra, con un discreto e non scontato fair play, è successo che il governatore in carica, per tutta la campagna elettorale, ha mantenuto la promessa fatta mesi fa: stare alla larga dall’indagine del rivale. Detto, fatto. La destra garantista con i propri nemici, visto ciò che è successo a Milano, è un caso più unico che raro, anch’esso a suo modo commovente. Ma se si sceglie di riavvolgere il nastro della campagna delle Marche la scena più esaltante resterà comunque un’altra: l’appello fatto settimane fa dal Pd che con una nota ufficiale ha denunciato un clima osceno creato dal processo mediatico, abbracciando Ricci “vittima di una campagna politica di odio e illazioni”. Potremmo chiedere al Pd, chi in questi anni ha contribuito maggiormente in politica ad alimentare e ad armare il mostro del processo mediatico, se ha mai notato la presenza di questa propensione nella grammatica di qualche suo alleato. Non sappiamo se le Marche ci diranno qualcosa sulle traiettorie del consenso elettorale. Ma sappiamo che fare politica senza essere ostaggi della dittatura della gogna non è un’utopia: a volte può diventare realtà, e farti riempire a sorpresa, e con un po’ di comicità, il tuo bicchiere sopra la soglia del mezzo pieno.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.