(foto Ansa)

Aridatece i veri insulti

Dai vaffa di Grillo alla cura delle parole di Conte: il M5s ha smarrito pure l'unica cosa che sapeva fare

Salvatore Merlo

"L'insulto lubrifica la realtà", diceva il comico e fondatore dei Cinque stelle. Ma il caso Maiorino-Tajani dimostra che insieme ai proclami di purezza e alle promesse di rivoluzione, il Movimento cinque stelle ha tradito anche la sua caratteristica più naturale. E ora cosa rimane?

L’insulto era il grande, forse unico, talento di Beppe Grillo, che molti anni fa, non a caso, in un comizio spiegò: “L’insulto lubrifica la realta”. Adesso i grillini non  riescono più nemmeno lì, dove il maestro eccelleva. Lo prova la senatrice Alessandra Maiorino che giovedì, come tutti sanno, ha detto di Antonio Tajani: sembra “un influencer prezzolato dagli israeliani”. Ebbene, la regola dell’insulto, come spiegava Grillo, è semplice. Un insulto ben riuscito non è invenzione del bersaglio polemico, ma caricatura del bersaglio. Si esagera un tratto vero e lo si deforma. Gore Vidal che liquida Andy Warhol come “genio col quoziente intellettivo di un cretino”. Oppure Massimo D’Alema che sfornò  per Renato Brunetta un fulminante “energumeno tascabile”. L’insulto che funziona non crea dal nulla, ma esaspera un tratto reale. Ora, se c’è invece uno che non assomiglia neanche da lontano a un “influencer”, per giunta “israeliano”, quello è Antonio Tajani. Figura compassata, grisaglia eterna, aria da monarchico  e da ex ufficiale dell’aeronautica. Tutto lo colloca in un altro secolo. Altro che influencer. Altro che Chiara Ferragni. Figurarsi Instagram. E se c’è poi uno che non assomiglia a un filo israeliano, nel governo di Giorgia Meloni, quello è sempre Tajani. Ci sono tanti ultra-israeliani nella maggioranza, e nella Lega, per esempio. Ma Tajani proprio no. Chiunque abbia letto almeno una volta un giornale sa che lui è quello che ha ripetuto la formula classica, diplomatica, forse tiepida, dei “due popoli e due stati”. All’Onu l’Italia, con lui alla Farnesina, ha votato a favore della tregua umanitaria. Punto. L’aggettivo si poteva attaccarlo a un altro vicepremier, uno a caso. Su Tajani non aderisce. Perché l’arte dell’insulto non è roba da garzoni di macelleria. E’ ingegneria lessicale. Non è ira cieca, ma precisione dell’arma. Richiede intelligenza, conoscenza della lingua, rispetto creativo della realtà. L’insulto è Borges che poteva divertirsi a dire: “Signore, vostra moglie, col pretesto di tenere un bordello, vende stoffe di contrabbando”. Altro che Maiorino.

 

Quando nel 2019 Giuseppe Conte varò il suo secondo governo e annunciò il nuovo corso del M5s, disse in Parlamento che il Movimento si sarebbe dedicato alla “cura delle parole”. Voleva dire moderazione, rispetto, linguaggio nuovo per attrarre il ceto medio. Sei anni dopo, la parabola è rovesciata. Non solo non curano le parole, esattamente come prima, ma hanno tradito, assieme ai proclami di purezza, ai doppi mandati e alle promesse di rivoluzione, persino l’insulto. Dei tanti tradimenti del M5s, questo è l’ultimo. E forse l’unico davvero imperdonabile, perché se non sanno più nemmeno insultare, ai 5 stelle cosa resta?.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.