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la riflessione

L'emergenza carceri e atteggiamento di chiusura demagogica del governo

Francesco Compagna

Nel passaggio dall’opposizione al governo, Fratelli d’Italia ha moderato il suo profilo su economia e politica estera, ma non sulla giustizia. L’emergenza carceri rivela l’anima più identitaria e demagogica dell’esecutivo

I mille giorni dall’insediamento dell’esecutivo Meloni, due settimane fa, sono stati l’occasione per discuterne, da angolature diverse, meriti, colpe e limiti. E a prescindere dagli opposti punti di vista, è parso a tutti evidente che il passaggio dall’opposizione al governo abbia coinciso, per Fratelli di Italia e per la sua indiscussa leader, con un approccio più pragmatico e meno ideologico su due questioni di enormi rilievo politico, quali la stabilità finanziaria del paese e la sua politica estera. Per estremo paradosso è invece proprio sul tema della giustizia penale e delle libertà individuali che la scelta di un ministro apparentemente estraneo all’humus ideologico della destra italiana si è purtroppo accompagnata a un deprecabile rafforzamento della sua deriva identitaria. E così, il progressivo passaggio da una vera e propria propaganda antieuropea a un “europeismo critico” è rimasto sorprendentemente sordo rispetto al riconoscimento dei valori e dei princìpi scolpiti nelle costituzioni nazionali, ancor prima che nella convenzione europea sui diritti dell’uomo e del cittadino.


Al continuo proliferare di nuovi reati, di nuove aggravanti e di nuove misure di sicurezza, si sono da ultimo aggiunte anche le più fragorose assurdità del dl Sicurezza, che definisce quale rivolta in carcere anche il semplice inadempimento di un ordine e che esclude qualsiasi alternativa alla detenzione per l’inafferrabile delitto di “istigazione a disobbedire alle leggi”. Sullo sfondo, c’è l’idea che si debbano rafforzare con ogni mezzo i poteri della polizia, proprio in quanto agevolmente controllabile dal governo e sufficientemente incline ad assecondarne le esigenze politiche del momento. In questo quadro, più dei timidi distinguo di Forza Italia, a squarciare il velo di demagogia che accompagna la criminalizzazione degli “avversari” (immigrati, manifestanti, detenuti) sono però intervenute le lettera da Rebibbia di Gianni Alemanno, grazie alle quali la destra post missina è stata improvvisamente chiamata – quasi senza accorgersene – a mettersi nei panni dell’altro. Sì, perché rispetto al cittadino comune il detenuto è “altro” per eccellenza: come lo straniero, come il diverso, il detenuto incarna tutto ciò che si pensa di non poter assolutamente essere. Ed è proprio per difendere chi  appare “altro” rispetto agli interessi di una determinata comunità sociale che si è giunti nei secoli ad affermare alcuni diritti inalienabili, che fanno da specchio alla dignità umana.


Per questo motivo, è stato allora profondamente sbagliata – da parte del governo – la scelta di selezionare i garanti nazionali dei detenuti secondo criteri di appartenenza partitica, piuttosto che per la loro competenza o sensibilità in materia, ed è stato poi ancor più grave lasciare serenamente al suo posto un sottosegretario che a quei detenuti vorrebbe togliere persino il respiro. Nelle ultime settimane gli interventi sul tema del presidente del Senato hanno avuto allora il merito di innescare un nuovo dibattito sul sovraffollamento carcerario.  E’ ancora troppo presto per illudersi, perché nemmeno le iniziative di Papa Francesco e le parole del presidente della Repubblica hanno finora consentito di superare quell’atteggiamento di chiusura demagogica, ancora prima che ideologica, che ha sinora permeato l’approccio governativo. E perché l’istituzione di una commissione, come sa bene il ministro della Giustizia che ne è stato di recente il promotore, è spesso il modo migliore per procrastinare in incertum la soluzione di un problema urgente. Vale però la pena di sperarci perché l’argomento carcere resta la cartina di tornasole della cultura dei diritti e della credibilità dello stato.

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