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Napolitano, il Pci e il rischio della banalizzazione buonista

Giovanni Belardelli

Nell'anno del centenario della nascita è uscita la biografia di Gregorio Sorgonà che però omette di citare almeno un paio di testi di rilievo nella biografia del futuro presidente

Preceduto e seguito da vari articoli sulla stampa, a fine giugno un convegno al Senato ha ricordato la figura di Giorgio Napolitano nel centenario della nascita. Si è trattato di un’iniziativa, come è ovvio, quasi obbligata vista l’importanza della sua figura sotto almeno due punti di vista. Fu Napolitano a indicare per primo al suo partito la strada per diventare a tutti gli effetti parte della sinistra europea; quella sinistra europea che Berlinguer non sapeva (ma per la verità neanche voleva) percorrere e che bisognò attendere la caduta dei regimi dell’Est perché fosse effettivamente percorsa, abbandonando il termine stesso di “comunista”. Fosse diventato lui segretario del partito, ha osservato Umberto Ranieri sul Riformista, la storia della sinistra italiana sarebbe stata diversa: un’ipotesi indubbiamente suggestiva anche se forse un po’ semplicistica. Ma l’importanza del ruolo svolto da Napolitano nella nostra storia più recente risiede soprattutto nel fatto che con lui, per tutta una serie di ragioni che ha ricordato Sabino Cassese sul Corriere, si precisa e accentua la centralità della Presidenza della Repubblica come architrave del nostro sistema politico-istituzionale. Una centralità che, come è noto, riposa sulla stessa indeterminatezza delle indicazioni che la Costituzione riserva ai poteri presidenziali.

L’occasione del centenario ha visto anche la pubblicazione di una biografia da parte di Gregorio Sorgonà, storico che ha già all’attivo vari lavori su altri esponenti comunisti: Giorgio Napolitano, Salerno editrice. Il libro, che contiene anche cose interessanti, suscita nel lettore più di una perplessità. Mettiamo da parte quella, che pure un fondamento lo avrebbe, di essersi basato per troppe vicende importanti quasi esclusivamente sulla successiva autobiografia di Napolitano (Dal Pci al socialismo europeo, Laterza 2005) piuttosto che su documenti di prima mano. Assai più discutibile è il fatto che l’autore ometta di citare almeno un paio di testi di rilievo nella biografia del futuro presidente.

Il primo di questi testi riguarda il 1956, l’anno del XX congresso del Pcus ma anche dell’invasione sovietica dell’Ungheria. Si svolse allora, in dicembre, anche l’VIII congresso del Pci. Sorgonà accenna a cosa Napolitano ne avrebbe scritto nel 1986 o, cinquant’anni dopo, nelle memorie e per il resto fa un generico riferimento all’orientamento di tutta quella generazione di giovani dirigenti comunisti, togliattiani e filosovietici. Scrive naturalmente che “lui per primo difende l’Urss senza tentennamenti pubblici”. Ma citare qualche passaggio dell’intervento, che è riprodotto nel volume degli atti del congresso, avrebbe dato un’immagine più efficace di ciò che è stata in quegli anni, anche per Giorgio Napolitano, la fede comunista nell’Urss. Per esempio, laddove affermava che l’intervento sovietico in Ungheria aveva evitato “che nel cuore d’Europa si creasse un focolaio di provocazioni” e impedito che il paese “cadesse nel caos e nella controrivoluzione”. E fa una certa impressione, quando Napolitano passava a trattare della politica meridionale del partito, il settore del quale si occupava all’epoca, leggere il suo duro attacco al riformismo (i “risorgenti pericoli del settarismo e del riformismo”, “un nuovo pericolo riformista” ecc.), con l’utilizzo polemico di un termine che non a caso ancora molti anni dopo la sua corrente, pur riformista nei fatti, non potrà usare (ripiegando sul termine “migliorista”).

Ma c’è un altro testo che l’autore omette di citare, e si tratta in questo caso di un’omissione più grave perché riguarda colui che per primo offrì un ampio quadro dei perseguitati e dei morti nel Gulag sovietico, Aleksandr Solgenitsyn. Quando lo scrittore russo venne arrestato ed espulso dall’Unione Sovietica, fu Napolitano – allora responsabile della Commissione cultura del partito – a scrivere un articolo su di lui, pubblicato sull’Unità del 20 febbraio 1974 e contemporaneamente sul settimanale del Pci Rinascita. Dopo aver polemizzato contro chi aveva sfruttato l’episodio per un “cieco rilancio delle immagini più fosche della propaganda antisovietica”, Napolitano riconosceva che la vicenda era “indubbiamente significativa e preoccupante”. Ma ribadiva anche “l’immensa portata liberatrice della Rivoluzione d’ottobre, lo straordinario bilancio di trasformazioni e di successi del regime socialista”. Proprio l’aver negato questo in modo via via più cieco, proseguiva, aveva “segnato la condanna di un’opera come quella di Solgenitsyn, che pure aveva preso le mosse da una giusta battaglia di rottura col passato staliniano”. Un giudizio che di fatto giustificava l’espulsione dello scrittore. 

Non sta a me dire perché l’autore abbia omesso di riprodurre almeno qualche passo dell’intervento di Napolitano al congresso del 1956 e perfino di menzionare il suo articolo del 1974. Posso solo osservare che questo genere di omissioni rischiano di confermare una tendenza alla banalizzazione buonista della storia del comunismo italiano, secondo una lettura che tende a smussarne gli angoli, a anticiparne distinzioni e rotture rispetto al modello sovietico. E’ precisamente quello che è avvenuto negli ultimi anni – attraverso libri, film, mostre – con Enrico Berlinguer ed è auspicabile che non venga replicato con Giorgio Napolitano. 

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