
l'editoriale del direttore
Più che cambiarla, Meloni ha scelto di non farsi scappare l'Italia
Più un Cfo che un Ceo. I mille giorni a Palazzo Chigi raccontano la storia di un governo che ha preferito la prudenza al protagonismo, la gestione alla rivoluzione, l’identità all’innovazione. Cosa salvare e cosa non funziona. E un paragone utile con i mille giorni di Renzi
Tra pochi giorni, venerdì per l’esattezza, il governo Meloni arriverà a un giro di boa importante. Il giro di boa corrisponde a un numero tondo, che nella storia della repubblica italiana hanno raggiunto solo quattro governi prima di quello attuale. Venerdì 18 luglio saranno mille giorni esatti di governo Meloni. Prima dell’attuale presidente del Consiglio, a superare quel traguardo, sono stati il secondo governo Berlusconi (che durò 1.412 giorni), il quarto governo Berlusconi (che durò 1.287 giorni), il primo governo Craxi (che durò 1.093 giorni), il governo Renzi (che durò 1.024 giorni). I mille giorni del governo Meloni richiamano rapidamente alla memoria gli ultimi mille giorni di governo che hanno creato dibattito nell’opinione pubblica, ovvero quello di Matteo Renzi. E provare a ragionare sulle differenze tra gli ultimi due governi piuttosto longevi della nostra Repubblica ci può aiutare a costruire un bilancio forse originale dell’esperienza del governo Meloni. Il governo Renzi e il governo Meloni sono governi difficilmente paragonabili per tutta una serie di ragioni che va al di là del carattere del premier di oggi e di quello di ieri.
Renzi, nei suoi mille giorni, ha cercato di cambiare l’Italia, di ribaltare le istituzioni come un calzino, di cambiare la Costituzione in modo radicale, di sfidare i conservatorismi di destra e di sinistra, di superare il bicameralismo perfetto, di far uscire l’Italia dalle secche della concertazione, di ridare ossigeno alle imprese, di dare una nuova dimensione al mercato del lavoro e da presidente del Consiglio si è mosso più da amministratore delegato che, come alcuni suoi predecessori, da amministratore di condominio. Renzi ha governato a colpi di strappi, facendo leva su una maggioranza molto creativa, avendo contro una minoranza del partito che lo ha logorato giorno dopo giorno, ma al centro della sua agenda vi era, teoria della rottamazione a parte, una doppia idea per provare a trasformare l’Italia. In primo luogo, cambiare la cultura di governo della sinistra, per poter provare a cambiare anche il paese. E in secondo luogo giocare con la strategia della rupture continua per provare a riformare l’Italia. Renzi, a suo modo, andandosi poi a schiantare contro il referendum costituzionale, ha scelto come chiave politica prioritaria quella di essere divisivo per provare a essere trasversale.
Meloni, undici anni dopo quell’esperienza di governo, avendo dalla sua a differenza di Renzi una maggioranza solida, stabile, litigiosa per modo di dire, e avendo soprattutto dalla sua un’investitura popolare che Renzi al governo non ha mai avuto, ha scelto di seguire una strada molto diversa, da quella dell’ex Rottamatore, e avendo probabilmente in un qualche cassetto della sua scrivania la foto di Renzi ha provato a giocare una partita in un certo senso opposta, che ci aiuta a capire qualcosa di più sui mille giorni di Meloni. Renzi, lo abbiamo detto, è stato divisivo. Meloni, nei suoi primi mille giorni di governo, ha fatto di tutto per essere poco divisiva, sia con le parole sia con i fatti. E seguire questa strategia ha portato Meloni, in questi primi mille giorni, a non strafare, a tenere un tono basso, a rifuggire le riforme divisive, a concentrarsi sul pragmatismo, ad amministrare a volte il paese più da cfo, da dirigente esecutivo, come si dice, che da ceo, da amministratore delegato.
Meloni, in questi mille giorni di governo, ha curato i dettagli, ha smussato gli angoli, ha amministrato più che governato, e mentre Renzi voleva cambiare il paese, sfidandolo, Meloni, senza voler sfidare l’Italia, ha scelto di gestirlo, e in mille giorni non si può dire che non lo abbia fatto bene. Lo ha fatto bene sulla politica estera, che resta il fiore all’occhiello di Meloni, nonostante gli imbarazzi degli ultimi mesi causati dallo tsunami trumpiano. Lo ha fatto bene in Europa, dove ha scelto di allontanarsi progressivamente e in modo netto e speriamo duraturo dagli estremismi di destra, al punto da essere alleata oggi al Parlamento europeo, a supporto della Commissione von der Leyen, più con i suoi nemici di un tempo, dal Pse a Macron, che con i suoi amici di una vita, da Orbán a Vox. Lo ha fatto bene, naturalmente, sull’Ucraina, su cui Meloni in questi mille giorni ha dato spesso il meglio di sé. Lo ha fatto bene, da perfetta cfo, gestendo, insieme con il ministro Giorgetti, i conti pubblici, tenendo a bada lo spread, facendo salire le borse e facendo il necessario, anche se non sufficiente, per rendere l’Italia più attrattiva. Lo ha fatto bene, con coraggio, anche sulla partita delle spese militari, andando a sfidare qui un pezzo dell’elettorato della destra, lo stesso che vede un pericolo più nel riarmo dell’Ucraina che nel riarmo della Russia.
Lo ha fatto su alcune partite industriali in cui il governo si è mosso con più abilità anche rispetto al governo Draghi, vedi la partita di Tim, con la vendita della rete a Kkr, vedi la partita di Ita, ceduta a Lufthansa, e vedi la partita di Mps, in cui il governo entro un anno intende uscire dall’azionariato, magari dopo aver aiutato Mps a conquistare Mediobanca.
Renzi, lo abbiamo detto, voleva cambiare il paese. Meloni vuole gestirlo. Renzi voleva ribaltare come un calzino le istituzioni, Meloni vuole migliorarle. Renzi usava la velocità come metodo, Meloni usa l’attesa come strategia. Renzi non aveva paura di aggredire il futuro, Meloni vuole provare a gestire al meglio il presente. Renzi ha fatto di tutto per rottamare la sinistra, Meloni non sta facendo di tutto per non rottamare la destra. Renzi ha cercato di parlare di futuro, Meloni ha scelto di puntare sull’identità. Renzi voleva sfidare la constituency della sinistra, con il Jobs Act, per esempio, Meloni vuole solo guidarla. Renzi voleva piacere anche alla destra, Meloni non ha alcuna intenzione di piacere alla sinistra. Renzi era trasversale, ma ha finito per essere poi non amato né dalla destra né dalla sinistra. Meloni vuole piacere alla destra, a tutta la destra, ma cerca anche un modo per essere rispettata dalla sinistra, e in effetti trovare elettori di sinistra che detestino Meloni non è semplice.
La volontà di non essere divisiva, da parte di Meloni, è forse uno dei tratti più importanti della sua azione di governo, del suo essere prudente, a volte immobile, ed è una delle ragioni che hanno permesso al governo di realizzare un piccolo miracolo, che da anni non si manifesta in quasi nessun paese europeo e che da anni non si manifesta in nessuna esperienza di governo in Italia: essere, dopo mille giorni, la favorita per le elezioni successive. L’Italia, durante la Seconda Repubblica, non ha mai visto vincere le elezioni a una coalizione che ha governato, e in giro per l’Europa nell’ultimo decennio l’unico a essere riuscito a restare al governo è stato Pedro Sánchez, in Spagna. Ma un po’ per meriti propri, populismo tecnocratico al governo, narrazione identitaria su temi che riguardano battaglie culturali con zero impatto sul governo, e un po’ per demeriti altrui, vedi alla voce opposizione, Meloni oggi si trova in una posizione diametralmente opposta a quella che aveva Renzi dopo mille giorni. L’ex premier, dopo mille giorni, era arrivato alla fine della sua corsa. Meloni, dopo mille giorni, sembra essere solo all’inizio della sua corsa.
E la differenza di gestione del potere tra Renzi e Meloni la si legge anche attraverso un altro dettaglio. Renzi, mosso dalla volontà di fare di tutto per cambiare l’Italia, provò a trasformare il referendum su una sua riforma identitaria, la fine dei bicameralismo, in un volano per le successive elezioni: si sa come finì. Meloni, temendo di fare la fine di Renzi, ha scelto di rinunciare ad alcune battaglie identitarie, come il presidenzialismo, come il premierato, concentrandosi invece su un’unica riforma, potenzialmente trasversale, ovvero quella della giustizia. Risultato: prima delle elezioni, l’unico referendum costituzionale che si celebrerà sarà quello legato proprio alla giustizia, mentre l’altro referendum possibile, quello sul premierato, se mai si farà lo si farà dopo le politiche, nella prossima legislatura. Il bilancio dei primi mille giorni di Meloni al governo, nonostante la difficoltà a mostrare una visione sul futuro, è un bilancio che non può che essere positivo, nonostante alcuni infortuni.
Ma più che concentrarsi sul passato ciò che oggi più che mai dovrebbe essere al centro dell’agenda del presidente del Consiglio dovrebbe essere legato a tutto ciò che non ha funzionato in questi mille giorni di governo e che meriterebbe di essere messo al centro dell’agenda del futuro. Non per cambiare il paese, ma per provare a utilizzare una congiuntura storica forse irripetibile, maggioranza solida, governo stabile, opposizione debole, europeismo senza discussioni, soldi europei a palate, in un’opportunità per non tenere bloccata l’Italia nelle grandi partite che riguardano il futuro. Ciò che è mancato a Meloni nei primi mille giorni di governo è qualcosa che riguarda l’assenza pressoché totale del governo sul sostegno alle imprese, sulla lotta contro la burocratizzazione dell’Italia, sulla proiezione verso l’innovazione, sulla capacità di utilizzare la creatività per rendere l’Italia ancora più attrattiva, sull’interpretazione del ruolo di pontiere dell’Italia meloniana in Europa non per giocare una partita fatta di interdizioni, per parare colpi, ma per provare a giocare una partita fatta di protagonismo. Non diremo, come spesso si tende a fare, che l’Italia, cosa che nessuno governo è mai riuscito a fare, deve battere i pugni sul tavolo, dare le carte a Bruxelles, imporre una nuova agenda in Europa. Ma quello che basterebbe all’Italia, in Europa, sarebbe molto meno: avere un’agenda.
In Europa, Meloni ha scelto di stare dalla parte giusta della storia, ma senza avere un’idea per trasformare il posizionamento in un motore utile per costruire battaglie politiche, e la ragione di questo imbarazzo e di questa difficoltà non è tanto nella non capacità della premier ma è legata al fatto che per contare in Europa occorre far parte dei grandi gruppi europei e invece Meloni ormai in Europa gioca da battitrice libera, senza avere alle spalle un gruppo europeo in grado di sostenerla. In Italia, invece, Meloni ha le spalle coperte, ha una maggioranza forte, un partito che la segue, una classe dirigente meno sprovveduta rispetto a come si racconta, ma a forza di portare avanti una sana politica di incoerenza verso il passato Meloni ha smesso di pensare al futuro. E per provare a pensare ancora al futuro le strade sono due. Da un lato, prendere atto di ciò che Meloni è diventata, senza aver paura di presentarsi agli elettori con un volto più moderato rispetto al passato (ieri era: sono Giorgia sono una madre sono cristiana; oggi dovrebbe essere: sono Meloni, sono una premier, sono cambiata). Dall’altro trovare il coraggio di utilizzare gli ultimi mesi del suo governo non solo per rinnegare le sciocchezze dette dalla destra in campagna elettorale (blocco navale, chiusura dei porti, protezionismo, nazionalizzazioni) ma facendo due cose: occuparsi degli autodazi che l’Italia ha scelto di imporsi da molti anni (per esempio compiendo qualche passo sulla concorrenza, per esempio investendo sull’innovazione, due grandi buchi neri del melonismo) e scommettendo su un’idea di destra che permetterebbe alla destra di essere insieme coerente e coraggiosa. In tre parole: abbassare le tasse.
Le tasse, per Meloni, sono probabilmente l’elemento più doloroso della sua esperienza di governo e una maggioranza di destra che ha contribuito a portare la pressione fiscale dal 41,4 del 2022 al 42,6 del 2024 non può non considerare fallita la sua missione. Non dividere è una scelta saggia, essere prudenti è una scelta comprensibile, voler amministrare piuttosto che rivoluzionare è una scelta giustificabile. Ma chiedere a un governo di destra di non tradire le sue idee quando si parla di burocrazia, di efficienza e di tasse dovrebbe essere una richiesta all’altezza anche di un cfo di lusso. Se, come si dice, si dovesse andare a votare nel maggio del 2027, anticipando di qualche mese il voto naturale che sarebbe a ottobre 2027, Meloni avrebbe ancora circa 660 giorni di governo. Utilizzarli per fare qualcosa di destra, piuttosto che ragionare sulle marchette e sulle mancette, dovrebbe essere qualcosa alla portata anche di chi il paese non lo vuole cambiare ma vuole solo provare ad amministrarlo con cura.