
Il Pd o è riformista o non è. E il riformismo non lo si può esternalizzare
Nel tempo delle derive estremiste, Filippo Sensi rivendica il riformismo come identità fondativa e metodo del partito: “Non è una corrente, è il Pd stesso”. Apertura, ascolto, metodo, responsabilità
Al direttore - È tornato di moda il riformismo, almeno in Italia? Esito apparentemente controintuitivo, nella stagione di Trump, Milei e Orbán. Laddove la scena internazionale sembra dominata da crescenti spinte alle estreme e alla radicalizzazione (ma, attenzione, poi finisce, almeno in Europa, che le elezioni le vincono moderati di sinistra o di destra come Starmer e Merz), in Italia si fa un gran parlare di riformismo.
A destra Giorgia Meloni si propone, al netto di un po’ di cattivismo per la sua base elettorale, come una leader affidabile, sempre più aliena alla agenda della sua ascesa politica così come alla faccia feroce di Salvini e Vannacci, portatrice di un messaggio unificante a destra, e non estremistico. Aiuta, certo, la consuetudine con il potere e i vertici internazionali, dopo tre anni a Palazzo Chigi (avviso dalle nostre parti: la loro mancanza di classe di dirigente non è più così vera come nel 2022, aggiornare ragionamenti e slogan).
Al centro è tutto un proliferare di riformismi di ogni genere, si aprono tendoni e tendine, si moltiplicano appelli e iniziative, si lanciano leadership e movimenti, tendenzialmente con un obiettivo: quello di aiutare a costruire una alternativa elettorale alla destra, più bilanciata, sulla base dell’assunto che la sinistra si stia radicalizzando e lasci spazi a una proposta moderata e riformatrice. C’è chi poi al centro, come Calenda e Marattin, persegue una sua terza via, sempre riformista, ovviamente: massimo rispetto e auguri, a loro e a tutti noi.
E il Partito Democratico? Dopo tanto, troppo, colpevole silenzio, di riformismo si ricomincia a parlare anche da noi.
Quando 18 anni fa, pare un secolo, il Partito Democratico si riunì per costituirsi, Walter Veltroni salutò così quel passaggio: “Finalmente i democratici, i riformisti italiani, hanno un partito. Una casa comune, grande e nuova”. Una “grande forza riformista”, la cui “identità aperta … nasce dall’incontro di storie e culture diverse”.
Ciò significa che le ragioni e le passioni che furono alla base della scelta del Partito Democratico sono anch’esse cambiate, si sono trasformate, hanno mutato di segno? In definitiva, che quel riformismo, quella idea di democrazia, alla prova dei cambiamenti di un mondo disorientato, apparentemente impazzito, fuori asse, sia finita anch’essa, la rinsecchita madeleine di una belle époque ormai inesorabilmente tramontata?
Quella riformista non è, dunque, una sensibilità nel Partito Democratico, o peggio, una corrente, come spererebbero i suoi detrattori.
Il Partito Democratico è riformista o non è.
Nasce da culture che continuano a incontrarsi, talvolta, sbagliando, a fronteggiarsi. Ha stabilizzato una koiné, soprattutto tra i più giovani, che è fatta di mescola, di libertà, di contaminazione. Di pluralità di voci, che è la vera ricchezza del Pd. Rifugge dalle monoculture, scarta rispetto alle identità, persino quelle immaginarie dove ogni tanto, per scelta o necessità, ci rifugiamo.
Il riformismo del Partito Democratico è metodo. E apertura. E tentativo. E provare e riprovare. Ancora e ancora.
Dire che il Partito Democratico è stato dal primo minuto e continuerà a essere fino alla fine con l’Ucraina significa essere dalla parte della democrazia che è la nostra ragione sociale e della difesa del diritto e della libertà contro l’odio e l’arroganza di Putin.
Chiedere con forza la cessazione delle violenze a Gaza sui palestinesi, la condanna delle decisioni di Netanyahu e la liberazione degli ostaggi nelle mani dei terroristi di Hamas, nemici della pace in Medio Oriente.
Pensare alla dimensione europea, alle sue istituzioni che devono funzionare meglio (e bene hanno fatto i socialisti ieri a confermare la loro fiducia a Ursula von der Leyen, perché per evitare lo scivolamento a destra della commissione non si può aderire alla sfiducia irresponsabile voluta dalla peggiore destra), come lo spazio di orizzonte del nostro Paese e dei valori nei quali ci riconosciamo – valori di libertà, democrazia, rispetto, diritto, le conquiste del welfare – e che vanno difesi con strumenti e investimenti comuni urgenti. Per l’Ucraina e per noi.
La difesa europea non va evocata per esorcizzarla, ma va intesa come la sfida esistenziale per l’Europa di oggi.
Sapere che la sacrosanta radicalità della protezione dell’ambiente non può non passare da un patto con i produttori e una conversione individuale, quella che chiedeva Alex Langer; una dimensione globale che aiuti ognuno di noi a cogliere la responsabilità e le conseguenze delle nostre azioni.
Adeguare gli stipendi delle persone in Italia a un costo della vita che rende impossibile per un giovane pensare di mettere su famiglia, per il ceto medio sempre più vessato di poter investire sul futuro, per chi è anziano di poter vivere non solo con dignità, ma anche felicemente la sua vita.
Pensare al mondo del lavoro non sulla base di una vendetta sul passato, come e stato fatto di recente con i referendum respinti dagli italiani, ma di una scommessa e di investimento sul futuro, inventando soluzioni concrete per chi è precario e più fragile, che non abbandoni lavoratori autonomi, imprese, commercio, manifattura agli stereotipi che hanno reso spesso tortuoso il dialogo e il confronto con la sinistra e li metta in condizione di innovare, competere, creare ricchezza per tutti.
Che sulle questioni delle libertà personali e dei diritti non arretri di un millimetro, senza lasciare spazio alla visione punitiva e concentrazionaria della destra.
Che non lasci alla destra con la faccia feroce la sicurezza dei cittadini, soprattutto i più deboli, quelli che non hanno i mezzi per tutelare il proprio diritto a vivere in santa pace. La sicurezza è la dimensione della nostra libertà di cittadini, dei nostri progetti, della nostra vita come comunità.
Tutte queste sfide, e altre ancora, sono sfide riformiste, che hanno bisogno di metodo, tenacia, capacità di ascolto attenta, di laicità, e sono le sfide che il Partito Democratico può e deve portare avanti e difendere, far crescere. Per gli italiani, in Europa.
Non è, quindi, esternalizzando questo sguardo, questa idea delle cose da fare che si fa crescere più robusto il Partito Democratico o che si bilancia una coalizione che deve farsi carico di qui a pochi mesi di una proposta chiara, larga, credibile di governo, e non solo della somma degli addendi, che già ci sono e che verranno. La matematica è importante, basti pensare al nostro rapporto con un partito populista come il Movimento Cinque Stelle, ma anche la chimica e la fisica lo sono.
Per questo si torna a parlare di riformismo nel Pd: perché riformare vuol dire cambiare le cose, davvero. A cominciare dalla nostra parte di campo.
Filippo Sensi è senatore del Pd