Stephen Graham in una scena di Boiling Point, film del 2021 diretto da Philip Barantini 

ristorazione etica

Camerieri opinionisti e osti impegnati: volevamo una genovese, non un comizio

Salvatore Merlo

Modesta proposta di moratoria: cari ristoratori, state zitti. Non siete conduttori di talk show, non siete diplomatici onorari. Siete – gloriosamente, meravigliosamente – padroni di casa. Avete una missione nobilissima: far star bene le persone. Non metterle alla prova

Ora qua non pretendiamo di essere serviti dal domestico di Zeno Cosini quello che nel romanzo di Italo Svevo serve senza fiatare, con professionalità impersonale. E nemmeno reclamiamo il maggiordomo che annuncia solennemente al Principe di Salina prann pronn (il pranzo è pronto) per rimanere poi in religioso silenzio. Epperò, dopo la storia degli israeliani e della ristoratrice pro Palestina a Napoli, non possiamo far a meno di notare che c’è un fenomeno tutto italiano – anzi, tutto centro-meridionale – che sfugge agli studi accademici ma che ogni cittadino, turista o semplice affamato sperimenta benissimo: il “maitre” che ti parla. Ma non per chiederti se vuoi l’acqua liscia o frizzante. Ti parla di sé, del mondo, degli arbitri di calcio, dell’Ucraina, del Medio Oriente e della crisi della democrazia rappresentativa in Italia. Una modesta proposta di moratoria: state zitti.

 

Tu ordini la trippa? E quello, con l’occhio lucido: “Ora le dico io il problema del paese”. Sei straniero? Peggio: diventi il pubblico ideale per spiegare, in uattzamerican s’intende, perché “we invented democracy, football and the best tomatoes ever”. Non è più ristorazione. Così è missione civile. Andare a mangiare è una seduta di analisi civica condotta da un uomo o da una donna in grembiule. Ogni piatto viene servito con un contorno di parole. La genovese? “La faceva mia madre quando eravamo poveri ma felici.” I cavatelli? “So’ i comunisti che l’hanno rovinati”. A Roma, in centro, è routine. Se fai il giornalista, e sei stato in tv, l’oste si sistema la maglietta, prende fiato e parte: “Mo t’illumino. Questo paese sai perché sta messo male?”. Fin qui, sorridiamo. Ma il momento più esplosivo di codesta “ristorazione impegnata” arriva a Napoli, maggio 2025: trattoria Santa Chiara dove, a seguito di un vivace dibattito sulla situazione in Palestina, un gruppo  di turisti israeliani viene “allontanato” fuori dal locale dalla proprietaria sostenitrice della campagna “Spazi Liberi dall’Apartheid Israeliana”. Applausi, insulti, post sui social, tifo da stadio, il Pd che ovviamente si divide pure su questo.

  

Ma  così non è più un pranzo, è un referendum. E allora no. Basta. Fine. Stop. Per carità. Cari ristoratori: non rompete le scatole. Servite i piatti. E state zitti. Non siete conduttori di talk show, non siete diplomatici onorari. Siete – gloriosamente, meravigliosamente – cuochi, osti, padroni di casa. Avete una missione nobilissima: far star bene le persone. Non metterle alla prova. Se uno entra nel vostro locale, non è lì per ingaggiare una diatriba sull’assetto geopolitico del Mediterraneo, né per schierarsi tra pane arabo e hambuger americani. È lì per mangiare. Forse anche per tacere. Forse persino per pensare ai fatti suoi, masticando lentamente. E se proprio volete parlare, fate come il parmigiano sulla pasta: una spolverata, non un’alluvione. Mettiamola così, come piacerebbe forse alla signora della trattoria di Napoli: il silenzio è una discussione portata avanti con altri mezzi.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.