
LaPresse
un requiem
Parlare di lavoro è arduo persino il 1° maggio
Sindacati deboli, politica disinteressata, guerre, dispute commerciali, Conclave e persino il risiko bancario italiano. È tutto un insieme di cose a fare sì che oggi il tema del lavoro sia passato in secondo piano
Dispiace dirlo in avvio ma un Mattarella non fa primavera e quello di quest’anno si presenta come un Primo maggio in tono minore. Le guerre sul campo, il peso della geopolitica, il Conclave, le dispute commerciali e persino il risiko bancario italiano tolgono focus e attenzione ai temi del lavoro. Gli stessi infortuni mortali, che continuano imperterriti a mietere vittime, trovano meno spazio nei notiziari. Le Grandi notizie spingono il lavoro nell’angolo e tendono a rendere meno palpitante l’annuale riflessione e iniziativa del Primo maggio. Aggiungo che veniamo da mesi nei quali il dibattito sull’AI è stato letto come l’ennesima sfida spaventosa che ci aspetta, un’offensiva percepita come capace di indebolire ulteriormente il lavoro tagliandone la quantità necessaria e incorporando nella tecnologia sapere e ambiti tipici del lavoro umano. Per farla breve si può dire che nel cast del film della storia contemporanea il lavoro perde posizioni e si deve accontentare di una particina.
A complicare le cose e ad accrescere questo senso di minorità un ruolo lo gioca la situazione del sindacato, protagonista comunque di questa ricorrenza e di questa giornata. Le divisioni tra le grandi centrali confederali pesano, le hanno viste contrapposte centralmente nella proclamazione degli scioperi generali e in periferia il copione è stato replicato in qualche azienda. Ma soprattutto le vedono fieramente contrapposte a un referendum popolare e una legge sulla partecipazione dei lavoratori alla vita d’impresa. Tanta roba. Si potrà obiettare che le confederazioni sono soggetti declinanti e come tali pagano errori propri ma restano pur sempre gli azionisti di maggioranza del Primo maggio e di loro in quest’occasione è giusto occuparsi. La verità che abbiamo sotto gli occhi è che quasi tutte le grandi questioni che riguardano l’evoluzione del lavoro non passano più dalla capacità di mediazione del sindacato che tradizionalmente si faceva carico del conflitto sociale e lo trasformava – in una sorta di seconda lavorazione – in contrattazione, proposta, comportamenti. Non c’è bisogno in questo caso di pensare all’intelligenza artificiale ma anche temi più consolidati nella tradizione come la gestione dei salari, le tutele del lavoro povero, l’integrazione dei migranti faticano a trovare la loro intermediazione. Il sindacato resta soggetto vivo di contrattazione nella parte alta del sistema produttivo italiano, nelle imprese che vanno bene, nelle multinazionali estere e in quelle italiane più o meno tascabili. Nella piccola impresa, nella galassia del lavoro low cost, nei servizi a basso valore aggiunto e nella logistica la vecchia supremazia sindacale è andata in archivio.
E così in virtù di questi processi il sindacato torna a fare “grande” notizia quando agisce in negativo, quando imbraccia in maniera sconsiderata l’arma dello sciopero generale oppure quando gli organismi di base tipo i Cobas organizzano lo stillicidio delle astensioni del venerdì. Ma è chiaro che in queste condizioni e a causa di questi indirizzi il sindacato perde in reputazione, in credibilità. Diventa più vicino a una corporazione che a un soggetto portatore di valori generali di maturazione sociale e di crescita civile. Lo stesso fatto che non si riescano a ridurre in maniera significativa gli infortuni sul lavoro ci parla, per carità, dell’insensibilità di una parte del sistema delle imprese e di ingiustificabili ritardi tecnico-organizzativi ma non rappresenta certo un attestato di efficacia dell’azione sindacale. Oltre a questi dati strutturali, oltre alla mancata contemporaneità delle confederazioni, pesano – come detto – le divisioni che si fanno sempre più marcate. La Cgil ha scelto una strada di surroga della politica della sinistra e sceglie battaglie come lo sciopero generale di cui sopra o i referendum che rimandano a una lettura politica della propria iniziativa. A un’iniziativa di contrapposizione al quadro politico a prescindere dal merito dei problemi e delle soluzioni. La Cisl sembra guardare altrove. Ha cercato un rapporto con il governo anche a costo di macchiare la storia della sua autonomia, ne è diventato un interlocutore privilegiato in cambio di un premio, l’approvazione della legge sulla partecipazione. Che poi la stessa sia stata edulcorata se non devitalizzata poco conta, resta il simbolo di una interlocuzione per la dirigenza Cisl e di uno sfondamento nel campo dei corpi intermedi per Giorgia Meloni. E non a caso anche quest’anno la premier vuole marcare la data con un segnale ad hoc. Meloni si sente forte anche perché vede le difficoltà delle opposizioni che cercano di recuperare terreno simbolico presidiando i cancelli delle fabbriche limitandosi però a una pura presenza di testimonianza.
In termini di comunicazione non sappiamo se una misura improvvisata e battezzata “per il Primo maggio” sia un messaggio che sfonda ma comunque la premier vuole onorare la scadenza nonostante i suoi collaboratori siano un po’ in difficoltà nel trovare contenuti significativi che qualifichino il provvedimento. Anche questo se vogliamo è segno di quel Primo maggio in tono minore di cui parlavamo. Infine si parla molto di questi tempi e a ragione del futuro della democrazia e dei destini dell’occidente, ebbene vale la pena ricordare come la forza del lavoro abbia anche coinciso con stagioni importanti del riconoscimento democratico, tempi nei quali i conflitti aspri finivano per fare somma positiva. Contribuivano a riempire le società aperte. Di tutta questa dialettica non solo di veto ma di proposta, rappresentatività, identità siamo inevitabilmente un po’ orfani.
P.s. Per la platea coinvolta (1,5 milioni di addetti) e il valore simbolico che riveste la rottura del tavolo del contratto nazionale di lavoro dei metalmeccanici non aiuta di certo relazioni industriali e crescita.