Un fotomontaggio con il profilo di Brodolini e le pagine dell’Avanti con le notizie della sua malattia e dell’approvazione dello Statuto (dal sito osservatorioglobalizzazione.it)

Il riformismo di cui l'Italia ha bisogno

Renato Brunetta

Un giorno per ricordare la lezione di Giacomo Brodolini, padre dello Statuto dei diritti dei lavoratori che diventò legge il 20 maggio 1970, e di Massimo D’Antona, assassinato dalle Brigate rosse il 20 maggio 1999

Nei lunghi e fruttuosi anni che mi hanno visto impegnato alla guida della Fondazione Brodolini, dal 1980 al 1996, l’appuntamento del 20 maggio è sempre stato per me motivo di gioia, un momento di festa. Una occasione per misurare concretamente, anno dopo anno, quanta vita e quanta forza generativa avesse prodotto Giacomo Brodolini che, come amava ripetere, in una stagione politica votata a una sorta di compromesso al ribasso, aveva deciso di stare “da una parte sola, dalla parte dei lavoratori”. Prima come giovane e brillante segretario nazionale della Federazione dei lavoratori edili della Cgil. Poi come vicesegretario della Cgil, al fianco di Giuseppe Di Vittorio. Infine, come parlamentare socialista per tre legislature sino a diventare, nell’ultimo tratto della sua breve ma intensa vita, ministro del Lavoro col secondo governo Rumor, nel pieno di una ondata di contestazioni operaie e studentesche, senza precedenti. Testimone generoso e protagonista di un riformismo pragmatico e maturo, capace di porre al centro della propria azione politica le ragioni della coesione sociale, in una epoca scossa da violenti scontri di piazza e dalle prime profonde fratture negli equilibri politici e nel tessuto sociale del paese, che posero le basi per la nascita del terrorismo.

Anche per questo, nella sua visione, l’obiettivo centrale era l’unità di un movimento sindacale che, allora come oggi, risultava profondamente diviso al proprio interno. Giacomo Brodolini morì prematuramente, colpito da un tumore ai polmoni, l’11 luglio del 1969. La consapevolezza della fine imminente ne rafforzò la convinzione di dover lasciare dietro di sé qualche cosa di importante e lo spinse, quindi, ad accelerare – per quanto possibile – la realizzazione del proprio programma politico. Partecipò ormai allo stremo delle forze, morendo  pochi giorni dopo, al Congresso della Cgil di Livorno, nel quale pronunciò – con un filo di voce –  un discorso che parve a tutti un testamento: ‘’Chi nella vita sceglie i propri amici, sceglie anche i propri nemici – disse –. E io ho scelto voi come amici carissimi’’.

In pochi mesi si adoperò per una vasta attività legislativa in materia previdenziale e sindacale: il superamento delle gabbie salariali, la ristrutturazione del sistema previdenziale. Anche sul piano dello stile personale Brodolini interpretò in modo nuovo il proprio incarico ministeriale, trascorrendo la notte del capodanno del 1969 in via Veneto, a Roma, con i  lavoratori della fabbrica romana Apollon, accampati in una tenda in protesta contro la chiusura del loro stabilimento, e portando ai braccianti di Avola la solidarietà delle Istituzioni dopo la morte di due lavoratori uccisi dalla polizia in occasione di una manifestazione sindacale.

L’intervento più rilevante di Brodolini fu la presentazione, il 24 giugno 1969, di un disegno di legge, alla cui elaborazione si era dedicato, con la collaborazione di Gino Giugni, fin dall’inizio del mandato ministeriale, dal titolo Norme per la tutela della libertà e della dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro, bozza della legge che poi entrò nella storia di un’altra Italia come Statuto dei diritti dei lavoratori. Con questo disegno Brodolini intendeva, come si legge nel testo, ”contribuire in primo luogo a creare un clima di rispetto della libertà e della dignità umana nei luoghi di lavoro, riconducendo l’esercizio dei poteri direttivo e disciplinare dell’imprenditore nel loro giusto alveo e cioè in una stretta finalizzazione allo svolgimento delle attività produttive”. 

Dopo la sua morte, il testimone passò a un altro “grande’’ della Prima Repubblica, il dc Carlo Donat Cattin, che volle confermare Giugni alla guida dell’ufficio legislativo del dicastero e che anticipò nella mediazione svolta per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici del 1969, alcuni di quei diritti che poi divennero legge con l’approvazione definitiva dello Statuto il 20 maggio 1970. 
E se di Brodolini si ricorda principalmente la paternità della legge n. 300/1970, deve altrettanto ricordarsi come fu protagonista anche del disegno di legge che realizzò la prima importante riforma delle pensioni (legge n.153 del 1969).


 Lo Statuto dei diritti dei lavoratori, quella legge datata 20 maggio 1970 che oggi celebriamo e che tanto ha contribuito alla realizzazione del disegno costituzionale che, all’articolo 3, assegna allo Stato il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Ma le mie emozioni e i miei sentimenti verso questa festosa ricorrenza sono profondamente cambiati dalla mattina del 20 maggio del 1999 quando venni raggiunto dalla notizia, inaspettata e imprevedibile, del brutale assassinio del professor Massimo D’Antona, giurista fra i più raffinati e profondi della sua generazione, freddato con nove colpi di pistola, mentre si incamminava verso lo studio a poca distanza dalla sua abitazione, in via Salaria a Roma. D’Antona fu atteso dai suoi assassini sul marciapiedi dietro ad un cartellone pubblicitario; cercò riparo coprendosi con la borsa che portava con sé, come se volesse contrapporre un contenitore di cultura alla bieca volontà criminale. E’ da quel giorno, e dunque da venticinque anni, che l’anniversario dello Statuto dei diritti dei lavoratori porta con sé un ricordo doloroso e amaro; l’impressione di vivere in un Paese profondamente ingiusto e malato se chi si muove con generosità e coraggio lungo l’orizzonte fecondo delle riforme possibili deve sacrificare la vita, a pochi passi dal luogo degli affetti più intimi e personali, per l’impegno civile al fianco delle istituzioni e del sindacato nel governare le trasformazioni in atto nel mondo del lavoro. 

Non ci è dato sapere con certezza se le date scelte dalle Nuove Brigate Rosse per colpire quelle rare e preziose figure di raccordo tecnico-istituzionale che rendono concretamente praticabili, in termini di tessitura del dialogo e di terzietà dell’apporto consulenziale (con i ministri del Lavoro e le grandi confederazioni sindacali), riforme apparentemente impossibili, siano state frutto del caso o piuttosto di un delirante e cinico calcolo comunicativo. Il 19 marzo, la Festa del papà, per Marco Biagi; il 20 maggio, la ricorrenza dello Statuto, per Massimo D’Antona. Eppure, sono proprio queste date simboliche a ricordarci, contrariamente alle velleitarie intenzioni dei terroristi, chi sono i riformisti: persone normali che, come noi, vivono i cambiamenti sociali, pensando al futuro dei propri figli; protagonisti concreti di un riformismo faticoso ma non impossibile, come il testo dello Statuto dei lavoratori sta a dimostrare, perché animato da quella passione civile che spesso manca nella nostra società contemporanea e che è focalizzato sulla paziente ricerca dei punti che uniscono posizioni diverse se non contrapposte. Un impegno concreto e generoso nella costruzione di nuovi equilibri, piuttosto che la comoda scorciatoia di mediazioni al ribasso in risposta alle profonde trasformazioni delle strutture produttive e dell’assetto democratico del Paese che ciclicamente si ripresentano nella storia dell’umanità. Come ebbe a scrivere un altro grande esponente del socialismo riformista, Giuseppe Federico Mancini, nell’introduzione al volume Terroristi e riformisti del 1981, “il riformista non è un’anima bella e non ne mena scandalo”. E’ idealista, ma non un ingenuo. Si muove lungo l’orizzonte delle riforme possibili, non cerca l’utopia o la rivoluzione. Quando necessario si accontenta anche della conquista più piccola che possa però contribuire, passo dopo passo, a rendere la nostra società più giusta e più coesa’’.

Mi ha molto colpito in questi giorni la lettura, tra i vari materiali istruttori raccolti dai miei collaboratori al Cnel, di un saggio di inizio anni Ottanta di Massimo D’Antona sulla partecipazione dei lavoratori. Con la capacità che appartiene solo ai grandi riformisti, di cogliere lo spirito dei tempi e di proiettarsi con fiducia nel futuro, D’Antona ci segnalava come il contrattualismo rivendicativo avesse ormai “mostrato il tetto delle sue possibilità” e che si dovessero “studiare forme di democrazia industriale capaci di trasformare il contropotere o potere di veto, detenuto dal sindacato in quanto soggetto conflittuale, in un potere positivo di indirizzo e di controllo”.

Il pensiero è subito corso a uno degli obiettivi che più mi sta a cuore nella nuova veste di presidente del Consiglio nazionale dell’Economia e del Lavoro e cioè un contributo possibile e concreto rispetto alla drammatica emergenza delle morti bianche e alla necessità di ripensare, in un contesto demografico declinante, l’intero rapporto tra la salute e il lavoro. Le leggi non mancano mentre sono l’effettività e la condivisione del disegno normativo a mancare in molti contesti produttivi e di lavoro.

Anche per questo lo Statuto dei diritti dei lavoratori, in una delle sue previsioni normative meno conosciute, e forse anche meno applicate, come l’articolo 9, mostra ancora oggi tutta la sua attualità e lungimiranza là dove stabilisce che i lavoratori, mediante loro rappresentanze, hanno diritto di controllare l’applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e di promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica. Una porta aperta per la contrattazione collettiva, secondo l’iconica immagine suggerita da Gino Giugni, che apre la strada, ancora oggi da percorrere compiutamente, verso una dimensione partecipata, e non conflittuale, della sicurezza negli ambienti di lavoro.

Ricordare oggi, a venticinque anni dalla sua scomparsa, il sacrificio di Massimo D’Antona e, al tempo stesso, riflettere sul frutto maturo delle conquiste del riformismo, di cui lo Statuto resta ancora oggi una delle migliori espressioni, ci impone di uscire dalla vuota retorica delle celebrazioni e di assumerci tutti una piena responsabilità per sviluppare una nuova progettualità a beneficio dei lavoratori, della parte sana del tessuto produttivo del Paese e della società tutta. Come Presidente del Cnel il mio impegno nei prossimi mesi sarà quello di fornire un contribuito per rivitalizzare questa dimensione promozionale e partecipativa dello Statuto, partendo proprio dal tema della sicurezza sul lavoro e da un rinnovato rapporto tra il lavoro e la salute che, come afferma la nostra Costituzione, non solo è un fondamentale diritto dell’individuo ma è anche un interesse della intera collettività.

La collaborazione, la coesione sociale, la partecipazione, l’inclusione, la parità di genere possono e debbono diventare catalizzatori di efficienza, di crescita e di giustizia sociale: il mercato da solo non basta più. Questa è la lezione dei nostri straordinari riformisti che, da oltre quaranta anni, è per me motivo di ispirazione.
 

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