La grandiosa Caporetto dei manettari

Claudio Cerasa

 La condanna di Davigo è un passo in avanti contro l’irresponsabilità e le ipocrisie della repubblica dei pm

La condanna in secondo grado comminata ieri a Piercamillo Davigo dai giudici della Corte d’appello di Brescia è una notizia clamorosa per almeno due ragioni diverse. Il primo elemento riguarda la nemesi del personaggio in questione, che da affezionato giocoliere del circo mediatico-giudiziario è divenuto tutto ciò che ha sempre combattuto: un moralista moralizzato deciso a scagliarsi contro gli organi di stampa che lo stanno descrivendo come un colpevole fino a prova contraria e deciso a denunciare la presenza di magistrati ideologici che lo avrebbero a suo dire condannato sulla base di teoremi. La nemesi di Davigo, vittima ora dello stesso teorema che aveva utilizzato per denunciare l’immoralità diffusa della classe politica, non esistono innocenti esistono solo colpevoli non ancora scoperti, è però solo una piccola parte della storia, che non dovrebbe far perdere di vista quella che è la vera notizia nella notizia.

 

E’ una notizia clamorosa la condanna di Davigo (alla famiglia davighiana del Fatto quotidiano va il nostro più sincero abbraccio) ma è una notizia ancora più clamorosa la ragione per cui l’ex capo dell’Anm è stato condannato in appello. Nell’Italia dei colabrodi giudiziari, il principio dell’irresponsabilità è quello che spesso governa il mondo all’interno del quale si muovono i magistrati più disinvolti e più spregiudicati, quelli che sentendosi essi stessi la legge spesso considerano secondario il rispetto delle regole fissate dalla legge, e in un mondo dove prospera l’irresponsabilità è purtroppo facile trovarsi al cospetto di casi in cui, di fronte a un errore, a una mancanza, a una svista o a un reato, non vi sia la responsabilità di nessuno. C’è una fuga di notizie da una procura? E che problema c’è, tanto nessuno pagherà. C’è un’indagine che viene aperta senza che vi sia una sola prova? E che problema c’è, tanto nessuno pagherà. C’è un’intercettazione che viene trascritta dove compare una persona estranea alle indagini? E che problema c’è, tanto nessuno pagherà. C’è un funzionario infedele che usa le banche dati delle procure e delle forze dell’ordine per fare dossieraggio? E che problema c’è, tanto nessuno pagherà.

 

Da questo punto di vista, la condanna di Piercamillo Davigo è un segnale importante perché testimonia una novità che capiamo possa suonare clamorosa alle orecchie del principe dei manettari. Il principio di responsabilità esiste anche per i magistrati. E il fatto che, nel caso specifico, un componente del Csm (come era Davigo) si faccia consegnare da un altro pm (di nome Paolo Storari) atti coperti da segreto per delegittimare un altro magistrato (Ardita) e per azionare la macchina del fango appoggiandosi all’allora presidente della commissione Antimafia (Morra) non è, come sostiene Davigo, “aver agito in buona fede” ma è semplicemente un reato, come lo è la divulgazione di qualsiasi atto coperto da segreto. In una repubblica dominata dallo stato di diritto, la condanna di un funzionario dello stato che ha divulgato atti coperti da segreto non dovrebbe essere nemmeno una notizia: dovrebbe essere la normalità. In una repubblica dominata dalla logica del dossieraggio, dal principio dell’irresponsabilità, dal tintinnio delle manette, sapere che la magistratura inizia a considerare irregolari alcune pratiche anche se queste vengono portate avanti dai magistrati è una notizia importante, che ci regala un sorriso non per tutto ciò che può rappresentare per il signor Davigo (e per i suoi compagni di gioco manettari) ma per tutto ciò che può rappresentare per lo stato di diritto e per un paese che a piccoli passi inizia a denunciare, come fatto due giorni fa anche dal procuratore capo dell’Antimafia Giovanni Melillo e come fatto ieri dal procuratore capo di Perugia Raffaele Cantone, quanto sia pericoloso non limitare i pieni poteri più pericolosi per il paese: quelli dei magistrati.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.