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La strategia

Landini lancia i referendum contro il Jobs Act per guidare il fronte anti Meloni

Nunzia Penelope

La Cgil e i quesiti sul lavoro per unire l’opposizione contro il governo. La proposte del leader sollevano però dubbi e perplessità dentro il sindacato

Come un fenomeno carsico, tornano ad affiorare i referendum sul lavoro tanto spesso evocati da Maurizio Landini. Dopo alcuni rinvii, una decisione ufficiale dovrebbe arrivare martedì 27, data in cui si riunirà l’Assemblea generale della Cgil, i cui circa 300 membri saranno chiamati a esprimersi col voto sulla proposta di una campagna referendaria in grande stile. La Consulta giuridica della confederazione, incaricata di studiare il dossier, nei mesi scorsi ha individuato una decina di aree di intervento, all’interno delle quali trarre tre o quattro quesiti  legati ai temi cari al sindacato.


Il menu è ampio, e va sotto il macro-titolo “lotta alla precarietà”. Si spazia dal Jobs act, accuratamente sezionato nelle sue varie parti, al Tfr per i dipendenti pubblici, ai voucher. In parallelo dovrebbe partire anche la raccolta firme per alcune leggi di iniziativa popolare, dal salario minimo alla rappresentanza, tema ritenuto cruciale dalla Cgil. Nell’intenzione originaria, le consultazioni sul lavoro dovrebbero trovare il modo di andare di pari passo con quelle future sull’autonomia differenziata e il premierato, creando così una sorta di larghissimo “fronte del referendum” sul quale unire l’opposizione politica, il sindacato e la  rete di associazioni che fanno parte del progetto landiniano “‘La Via Maestra’’. Partendo dalla considerazione che il governo Meloni durerà a lungo, Landini ritiene  che sia necessario avere filo sufficiente per tessere una tela che consenta di stare in campo altrettanto a lungo, attraverso iniziative che possano sostenere l’azione sindacale ma anche quella dei partiti, ritenuti oggi troppo deboli rispetto al governo. Del resto, l’unica vera fiammata dell’opposizione è stata la battaglia sul salario minimo: persa, certo, ma ottenendo  grande consenso e visibilità. Tornare a combattere assieme, sindacato e partiti della sinistra, sui temi del lavoro potrebbe essere una buona mossa per tenere alta l’attenzione. Già mesi fa, all’annuncio di un ipotetico referendum contro il Jobs Act, Landini aveva raccolto il “sì” preventivo di Elly Schlein, e anche il M5s di  Conte non  dovrebbe negare il suo appoggio. 

Paradossalmente,  però, è proprio in Cgil che l’idea dei referendum solleva perplessità. Al punto che la decisione è stata già rinviata un paio di volte. L’area di dissenso è abbastanza ampia, e riguarda proprio i referendum sul lavoro. Parte del gruppo dirigente ritiene che cimentarsi nuovamente coi quesiti su un argomento divisivo come il Jobs Act, dopo l’esperienza del 2017, finita poco gloriosamente, sia una sfida che presenta eccessivi rischi: per esempio, che non riesca a raggiungere il quorum – cosa quasi scontata, visto il costante calo dell’affluenza – o, peggio ancora, che finisca per essere sconfitto nelle urne. In entrambi i casi l’immagine della Cgil ne uscirebbe danneggiata e indebolita. Senza contare che una campagna referendaria costa, sia in termini economici, sia per impiego di capitale umano: e non è che il sindacato non abbia nulla da fare per i prossimi mesi, con le innumerevoli vertenze che si aprono ogni giorno e con una difficilissima stagione di contratti da rinnovare alle porte. Obiezioni, queste, che sono state rivolte a Landini nel corso di diverse riunioni interne, passando trasversalmente al gruppo dirigente: da un lato la freddezza di una parte delle categorie, dall’altro la convinzione di regionali e camere del lavoro. Martedì  toccherà all’Assemblea generale pronunciarsi, e sarà una parola definitiva. È scontato che passerà la linea di Landini: sia per i numeri (preponderanti quelli a favore dei referendum) sia per la regola della lealtà al segretario, sempre rispettata in Cgil.
 

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