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L'analisi

L'autonomia differenziata è soprattutto un problema di efficienza

Marco Leonardi

Non esiste un modello ottimale per la distribuzione delle competenze fra i diversi livelli di governo, ma l’assetto deve essere coerente tra le regioni per poter risultare efficiente. In Italia, per come si sta procedendo ora, non sarà così

Non si possono avere idee preconcette sulla desiderabilità di un assetto decentrato, del resto questo progetto è stato avviato nel 2001 con la revisione del titolo V della Costituzione e portato avanti da diversi governi. La fretta dell’attuale ministro per gli Affari regionali può però indurre a sottovalutare i rischi del riassetto delle competenze fra stato e regioni. La geometria variabile rischia di essere una vera iattura anche al di là del tema del finanziamento. Molti, contrari all’autonomia differenziata, sperano: “Prima bisogna decidere i Lep (Livelli essenziali delle prestazioni) e finanziarli, e siccome non ci sono i soldi per finanziarli l’autonomia non si farà mai…”. Purtroppo non è così.  Le regioni che lo chiedono possono ottenere da subito l’autonomia in tutta una serie di materie di tipo regolatorio e autorizzativo che non richiedono nessun Lep, semplicemente perché non sono prestazioni pubbliche. Si tratta per esempio di rapporti internazionali e con l’Ue,  commercio con l’estero,  regolazione delle professioni,  protezione civile,  regole di accesso alla previdenza complementare. 


Non c’è un modello ottimale per la distribuzione delle competenze fra i diversi livelli di governo: tanto un assetto accentrato, come quello norvegese, quanto un sistema istituzionale a forte vocazione autonomista, come quello tedesco, possono produrre risultati  eccellenti. Nella classifica sull’efficacia dell’azione pubblica della Banca mondiale, l’Italia si colloca agli ultimi posti fra i paesi dell’area dell’euro, dopo avere registrato un sensibile arretramento negli ultimi 25 anni (ossia da quando le regioni hanno acquisito maggiori funzioni e risorse finanziarie). Il punto è che l’assetto deve essere coerente tra regioni invece da noi, per come si sta procedendo ora, non sarà così (ed è ben diverso per esempio dal referendum 2016 in cui si proponeva la redistribuzione uniforme di competenze tra stato e regioni in modo uniforme).  


Se la proposta di legge quadro all’esame del Parlamento dovesse andare in porto nella sua versione attuale, ciascuna regione potrebbe richiedere una devoluzione di funzioni à la carte: dalle  infrastrutture energetiche e di trasporto alla salute, fino all’istruzione e alla sicurezza sul lavoro. Nel nostro ordinamento si troverebbero così a operare tre distinti gruppi di regioni: quelle a statuto ordinario, con competenze uniformi fra loro; quelle a statuto speciale, ciascuna con competenze proprie; quelle ad autonomia differenziata, con competenze difformi sia dalle une sia dalle altre. Si tratterebbe di un unicum  internazionale, anche rispetto a paesi che hanno già sperimentato forme di federalismo asimmetrico come la Spagna.


La frammentazione delle competenze potrebbe comportare una significativa perdita di efficienza: le imprese dovrebbero confrontarsi con quadri regolamentari  molto diversi da regione a regione. Sarebbe singolare avere regole regionali di accesso diverse alle professioni o alla previdenza complementare o accordi commerciali diversi da una regione all’altra. Esattamente il contrario di quello che il governo ha appena approvato con le procedure centralizzate della Zes unica del Mezzogiorno e una contraddizione di quel che serve per i progetti Pnrr. Esattamente il contrario anche di quel che potrà servire domani, quando – si spera – verranno affidate diverse politiche industriali e dell’immigrazione a un coordinamento e finanziamento di tipo europeo.   


Tutto questo  avverrà prima e indipendentemente dal campo delle politiche di bilancio, dove l’autonomia differenziata comporterebbe invece il trasferimento alle regioni di settori rilevanti della spesa  statale e la corrispondente cessione di significative quote del gettito tributario. Ne deriverebbero problemi di coordinamento fra gli obiettivi di bilancio nazionali e le scelte di spesa locali. L’esperienza delle regioni a statuto speciale al riguardo non è incoraggiante. 


Che fare quindi? Perlomeno raccogliere l’invito alla gradualità formulato in tante audizioni e tra gli altri dalla Banca d’Italia: sulle materie regolatorie procedere per singola materia e sulla base di comprovati vantaggi rispetto allo status quo; sulla parte finanziaria occuparsi prima del sistema generale di finanziamento delle regioni a statuto ordinario e poi di come finanziare la devoluzione asimmetrica di funzioni; prevedere la possibilità di rimodulare nel tempo l’entità delle risorse trasferite sulla base delle priorità della politica di bilancio nazionale; introdurre un sistema stringente di verifica ex post dei risultati conseguiti dalle singole regioni.
 

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