(foto Ansa)

Il caso

Così il Garante della privacy s'è trasformato in una buca di video porno

Luca Roberto

L'Autorità per il trattamento dei dati personali dal 2021 monitora i contenuti che potrebbero essere oggetto di "revenge porn". Ma poi si limita a comunicare i codici alle piattaforme, senza alcun obbligo di riscontro

Immaginate una riunione dell’Autorità Garante della privacy in cui, tra una decisione sull’applicazione del Gpdr e un parere su un emendamento in Parlamento, il presidente e il collegio dell’Autorità sono chiamati a esprimersi sulla natura di un video porno. Visionato da un maxi-schermo posizionato nella stanza in cui ci si riunisce. Sembra uno scherzo, ma è quel che accade realmente all’organismo presieduto da Pasquale Stanzione. Dal dicembre 2021, infatti, tra le competenze attribuite al Garante c’è anche quella di provare a bloccare la diffusione di materiali che rientrano nella categoria del “revenge porn”, ovvero foto e video che vengono messi in rete con l’intento di ledere l’immagine per esempio di un ex partner.

Per provare a dare delle risposte concrete a un fenomeno in crescita, con la diffusione di strumentazioni sempre più tecnologiche, l’allora governo Draghi nell’ottobre 2021 decise di affidare all’Autorità Garante per la protezione dei dati personali quest’ulteriore compito rispetto alle decine che già svolge. Come? All’articolo 144-bis del Codice della Privacy si stabilisce che chiunque abbia il sospetto di diffusione di un certo materiale possa condividerlo con l’Autorità attraverso un apposito form. La quale ha l’obbligo di comunicare in via preventiva alle varie piattaforme, dai social fino ai siti che diffondono materiale pornografico, il blocco alla pubblicazione di determinate foto e video. Un modus operandi che il Garante aveva già predisposto autonomamente con alcuni soggetti come Meta (proprietario di Facebook e Instagram). Solo che il lavoro del Garante in pratica finisce qui, con la comunicazione alle piattaforme. E’ la ragione per cui a fronte di migliaia di segnalazioni raccolte nel corso di questi più di due anni, da Telegram fino a TikTok, non ci sia stato alcun riscontro effettivo dai player che si dovrebbero incaricare del blocco dei contenuti. Player che nel caso dei siti porno non hanno nemmeno dei referenti italiani.

 

In realtà, la scarsa efficacia del lavoro del Garante risiede pure in un’incompatibilità tecnica: perché alle piattaforme l’Autorità si limita a comunicare il codice hash. Che però basta venga inviato su qualsiasi piattaforma di messaggistica per mutare. In sostanza, una volta ricevuto sul proprio dispositivo se lo si carica online le piattaforme non sono in grado di riconoscerlo. Fatto sta che a quest’attività di sorveglianza è stata demandata un’intera unità del Garante, composta da 4 funzionari e un dirigente. Chiamata a rispondere, come detto prima, entro 48 ore dalla segnalazione. Ragion per cui quest’ufficio resta operativo anche nel week-end. E per il quale è stata costruita un’imponente rete informatica in grado di prevenire eventuali data breach, vista la natura sensibile dei contenuti che vengono raccolti.

Il lavoro dell’Autorità è precedente al reato. Nel senso che se si viene a conoscenza di fattispecie che configurano reati penalmente perseguibili (ad esempio la pedopornografia) le competenze vengono trasferite alla Polizia postale. Che ha tutt’altri strumenti di intervento, potendo riferire direttamente alle autorità giudiziarie. Una fonte interna al Garante racconta come il lavoro di quest’ufficio sia stato vittima di veri e propri mitomani ed esibizionisti che, venuti a conoscenza del fatto che vi lavoravano tre donne, inviano loro contenuti espliciti per il semplice gusto di farsi vedere. Mentre sulle questioni più spinose, ovvero decidere se sia opportuno inviare una segnalazione a PornHub e gli altri, intervengono direttamente il presidente e l’intero collegio, dopo aver visionato insieme i contenuti.

Nonostante ciò, l’Autorità garante continua a credere nell’utilità del lavoro che porta avanti. Non solo ha stretto un accordo con i Corecom (Comitato regionale per le comunicazioni) regionali. Ma ha anche avviato un’intensa campagna di comunicazione con dei video dal titolo “Finalmente un po’ di privacy”. E’ chiaro che l’intento è meritorio. Ma l’inefficacia dimostrata rischia di far percepire il lavoro come una visione estemporanea e fuori contesto di materiale pornografico da parte di chi ci lavora.

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