Giorgia Meloni - foto Ansa

L'editoriale dell'elefantino

Meloni non deve confessare proprio niente: il ricatto è politica

Giuliano Ferrara

I giornali sono pieni di gargarismo morale, ma non si rendono contro che è ridicolo chiedere "fuori i nomi" in materia di ricattabilità

C’è da mettersi il cervello a sghimbescio e il cuore in pace leggendo che Meloni deve dire o meglio confessare subito, pena lo scandalo etico o una inappellabile condanna morale, chi mai avrebbe osato pretendere di dare le carte, cioè condizionare il governo che ella ha l’onore di presiedere (si dice così) e magari, usando un linguaggio da trivio che non si porta in società, addirittura ricattarla. Anvedi. I giornali sono pieni di questo gargarismo, si inseguono in pagina i commenti gorgoglianti di indignazione, si evoca Soros per alludere ai Protocolli dei Savi di Sion, ai mitologici incubi del complottismo sfrenato della destra più stronza. Per la verità l’ultima accusa, ricatto, non la si è udita, e sì che c’erano tre ore e un minuto di tempo per pronunciarla durante la conferenza stampa del delitto. La presidenta o ducia liberale non ha mai affermato che qualcuno tenta di ricattarla, ha detto che non è ricattabile, esattamente come aveva fatto quando in Senato Berlusconi le diede dell’arrogante e della presuntuosa perché era andato in bianco un suo lodevolissimo e compitissimo, mi si consenta, tentativo di condizionamento politico, la nomina di Licia Ronzulli a ministro segretario di stato per la Salute generale.

Esibendo il suo solito orgoglio borgataro e la sua maliziosa quanto maniacale estraneità ai famosissimi poteri forti, perfino se annidati nella stessa cerchia della sua maggioranza e nella persona del suo immenso facilitatore, il Cav., la campionessa identitaria della sezione Colle Oppio si considerava già allora, quando pretendeva di scegliere lei i nomi dell’esecutivo, estranea all’establishment, perfino al suo costituente in capo. Ma allora, trattandosi di Berlusconi e non di Giuliano Amato o chissà chi altri, nessuno fece di quel “non sono ricattabile” il pretesto per un affondo etico, tutti pensavano, e giustamente, che già all’atto del voto sulla presidenza della Camera alta, con il pasticcio di Forza Italia sul nome di La Russa, ti voto non ti voto forse ti voto, la giovane e inesperta Meloni era incappata in un banale incidente politico, roba di tutti i giorni o quasi. Ronzulli era influente nel cerchio magico del Cav. ma nessuno poteva pensare a lei come a un campione dei poteri forti, una Giorgia Soros, una Savia di Arcore. Il tutto fu correttamente archiviato in fretta, pronubo il mio amico Gianni Letta e i consigliori del cerchio maggiore, e invece dei gargarismi morali si intesero solo risolini e lazzi. 

La sola idea che non esistano i condizionamenti in politica, che a nessuno tra coloro che contano o aspirano a contare possa mai venire in mente di esercitare un’influenza sulle decisioni ovvero dare alcune carte o le carte, pena l’inferno in qualche girone dei più impietosi, fa sorridere, ovviamente. Mi capitò una volta di spiegare con modestia, sulla base di una esperienza politica modesta anch’essa, che non solo in politica si cerca di ricattare per ottenere ma che la vera consacrazione nella casa del potere, quella che fa di te uno del giro, uno o una che ha diritto di arare il campo e possederlo in modo fruttifero, avviene solo e se diventi in un certo senso “ricattabile”, se ti si può considerare agente di una commistione che è l’essenza della politica a tutte le latitudini morali. Si parla ovviamente per metafora, nessuno può interpretare troppo letteralmente la verità, non in questo campo. Eppure a diversi gradi, con diversi mezzi, anche nella sfera dell’agire coperto da forti idealità e propositi piuttosto benevoli verso l’umanità, non solo nelle bande mafiose organizzate, quelli che sono percepiti come persone sensibili al condizionamento, alla mediazione, al compromesso, alla spartizione del bottino, sono considerati più interessanti di quelli, pochini, che esibiscono le mani pulite, ma non hanno le mani. 

I più ragazzi dovrebbero ricordare certi augusti precedenti. Il capo socialista e statista Craxi negli anni Settanta aveva concordato con il segretario della Dc De Mita una staffetta alla guida del governo: due anni e mezzo per uno, cominciava Craxi che per la prima volta rompeva il monopolio dei democristiani sulla guida del ministero (Spadolini era stato prima di lui un’eccezione effimera, possibile per l’irrilevanza del suo progetto politico agli occhi degli avversari). Quando Craxi, forte di consensi teorici o potenziali nel popolo e di risultati glamour nel mondo, disse alla scadenza del patto che non aveva nessuna intenzione di cedere il posto al vecchio rappresentante dei soliti reggitori dello stato, fu dichiarato con enorme scandalo “inaffidabile”, che si legge senz’altro come “non ricattabile”, nel senso che lo spergiuro avventuroso e solitario era addirittura una sfida alla democrazia o almeno alla costituzione materiale della politica come la si faceva allora. È quello sgarro che alla fine Craxi pagò con la condizione di paria, non il riarmo dei Carabinieri a Sigonella. Una volta ottenute le dimissioni di Craxi dopo una crisi lunga dura e spericolata, il capo comunista Natta e quello dc De Mita, pronubo Enzo Biagi, si accordarono pubblicamente in televisione per fare le elezioni e castigare il reprobo, l’inaffidabile, il non ricattabile. Vararono un governo istituzionale destinato a non avere la maggioranza e a portare l’Italia alle elezioni, presieduto dall’eminente Amintore Fanfani, che era il presidente del Senato all’epoca, e quando l’infido Bettino dichiarò a sorpresa che lo avrebbe votato e dunque avrebbe fatto saltare il patto contro di lui, i democristiani votarono clamorosamente la sfiducia al loro campione Fanfani e ottennero le agognate elezioni con quello che Meloni, sempre per via dell’orgoglio borgataro, definirebbe senz’altro un mezzo illegittimo. 

Comunque sia, se non si voglia scomodare la noia della storia antica, si pensi a Matteo Renzi, un altro “inaffidabile” destinato al ruolo esimio di paria. Del disamore dei poteri forti verso di lui si disse che dipendeva dal fatto che non rispondeva alle chiamate dei direttori del Corriere della Sera e della Repubblica e della Stampa: evidente esagerazione, sebbene sarebbe interessante chiedere al sottosegretario factotum  Fazzolari qualche dettaglio sull’agenda degli incontri mancati (sono quelli più interessanti) della presidenta. Certo l’idea della disintermediazione, rivestita di modernismo antiburocratico e di pretesa all’innovazione, non era fatta apposta per attribuire al giovane spavaldo che parlava con le mani in tasca la qualifica decisiva di “affidabile”, che poi è di nuovo il risvolto non solo metaforico del tema della ricattabilità. Quando mancano un po’ di lettismo e di andreottismo le cose si complicano, questa è la verità che i giornali gargarizzanti tendono a tacere. E la ducia liberale ogni tanto offre l’impressione di voler regolare da sé i conti con l’economia, la politica estera, le élite europee. Può essere tronfiaggine, coltivazione triste di una memoria impalatabile per la generalità della “nazione”, può essere istinto corrucciato del famoso underdog (la ducia sa l’inglese, e pare che suo cognato lo sappia parlare anche meglio, toh). Comunque è vano e un po’ ridicolo levare alti lai sul tema della reticenza, “fuori i nomi!”, in materia di ricattabilità. 

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.