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Con la richiesta della quinta rata, Meloni e Fitto centrano tutti gli obiettivi. Ma occhio ai trionfalismi

Giorgio Santilli

I target erano stati molto alleggeriti dalla revisione per renderli raggiungibili. Il prezzo di questa mutilazione si paga in 10 miliardi di minori trasferimenti da Bruxelles nel corso del 2024 (saranno recuperati nel 2025). La vera vittoria del ministro è sul Fondo di coesione. Intanto Salvini cerca un Piano casa

Con la cabina di regia di ieri e l’annuncio dell’imminente richiesta della quinta rata a Bruxelles per 10,5 miliardi, si chiude l’anno di transizione del Pnrr. Il governo ha raggiunto tutti gli obiettivi che si era prefissato. Con la quinta rata sono stati centrati obiettivi importanti come l’aggiudicazione degli appalti del settore idrico e l’avvio della linea ferroviaria Salerno-Reggio Calabria, ma i toni trionfalistici di Giorgia Meloni e Raffaele Fitto sono forse eccessivi, considerando che i target erano stati molto alleggeriti dalla revisione del Pnrr per renderli raggiungibili. Il prezzo di questa mutilazione si paga in 10 miliardi di minori trasferimenti da Bruxelles nel corso del 2024 (saranno recuperati nel 2025). 

La giornata di ieri ha comunque rappresentato plasticamente il “punto e a capo” che consente al governo di guardare con serenità al 2024. A fare il bilancio complessivo è stato il ministro per l’Europa e il Pnrr. “Il pagamento della terza rata e quello imminente della quarta – ha detto Fitto – la verifica dello stato di attuazione degli obiettivi della quinta rata e, soprattutto, la definitiva approvazione del nuovo Pnrr italiano, salvaguardando le risorse finanziarie e le opere programmate, implementando le riforme e alimentando nuovi investimenti strategici per la crescita strutturale dell’Italia, concludono un anno di positivo lavoro sul Pnrr portato avanti dal presidente Meloni e dal governo tutto, in costruttiva collaborazione istituzionale con la Commissione europea”.

Prevale la linea di difesa di quel che c’era per metterlo concretamente a terra. Nei fondamentali del Piano rivisto, in realtà, è successo poco o nulla. C’è il RePowerEu, ridimensionato di un paio di miliardi rispetto alla proposta originaria, dove la novità vera è il Transizione 5.0 per aiutare le imprese nello sforzo verso il green. Ci sono un paio di salvataggi eccellenti, come il piano degli asili nido e il Terzo valico, che erano messi male e continuano a esserlo, come dimostrano gli altri 475 milioni di boccata d’ossigeno inseriti nella legge di Bilancio per le gallerie bloccate della ferrovia Milano-Genova (siamo a 1,7 miliardi aggiuntivi con quattro interventi da agosto). Il grande salto di qualità della programmazione non c’è stato, a dispetto di tutti quelli che invocavano la revisione del Pnrr in nome di chissà quale disegno migliore di quello di Mario Draghi. Il paradosso di questo piano resta il Superbonus che continua a essere la voce più finanziata (13.950 milioni), vituperato e osteggiato in patria e difeso (per calcoli di cassa) in Europa.

Giorgia Meloni esce rafforzata nelle partite europee, ma la vittoria di Fitto va però oltre il Pnrr. Aldilà delle ambizioni più o meno vere di prendere casa a Bruxelles, il superministro porta a casa un paio di successi politici collaterali tutt’altro che secondari negli equilibri di governo. Anzitutto, ha tenuto duro nella partita senza esclusione dei colpi con i comuni e il fatto che gli abbia ridato indietro 3 miliardi dei 13 tagliati non cambia nulla. La grana di trovargli fondi sostitutivi tornerà a inizio anno ma le cifre – da trovare con il collega Giorgetti – saranno largamente ridimensionate: solo una parte di quei progetti andrà avanti con una ulteriore scrematura, saranno rallentati i cronoprogrammi, i fondi saranno diluiti nel tempo. Il decreto-legge di gennaio darà qualche prima indicazione, ma la partita per il governo ormai è vinta.

La vera vittoria di Fitto è, però, quella del Fondo sviluppo coesione (Fsc). Il Pnrr gli è servito per prendersi pieni poteri sulla programmazione dei 32,4 miliardi ancora in attesa di destinazione. Si annette un’altra costola. Il Ponte sullo Stretto è stata la prima puntata di questa partita e il ministro l’ha vinta pienamente: la cifra prelevata dalle risorse Fsc di Sicilia e Calabria è addirittura cresciuta a 2,3 miliardi dopo le proteste del presidente siciliano Schifani e nella norma della legge di bilancio approvata lunedì in commissione (e oggi in Aula) c’è scritto – tradotto dal burocratese – che se i due governatori vogliono ripartire i fondi restanti (per la Sicilia sono in tutto 6,2 miliardi) devono accettare di controfirmare, nell’accordo di coesione con il ministro, la ratifica dei soldi destinati al Ponte.
Intanto il ministro Salvini prova ad aprire nuovi fronti. Ieri ha lanciato il “piano casa” in un incontro con sindacati, imprese e associazioni. Per ora c’è solo la sua intuizione che il tema del “disagio abitativo” sta crescendo a vista d’occhio. Incrocia un’esigenza avvertita da anni: rimpiazzare il vuoto lasciato dai piani di Amintore Fanfani prima e poi dai contributi Gescal che avevano garantito la realizzazione di abitazioni sociali fino agli anni ‘90. La legge di Bilancio gli dà poco: i primi fondi disponibili sono al 2027, ci sono linee guida, da scrivere con i ministri Giorgetti e Musumeci, per tentare di coinvolgere i privati. L’ultima versione della legge di Bilancio ha dovuto precisare che la destinazione di palazzi vuoti ad abitazioni sociali si farà solo con il consenso dei proprietari. Qualcuno aveva subito gridato all’esproprio proletario, ma è evidente che non è roba da Salvini.

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